Introduzione
I giovani stranieri formano, ormai da molti anni, una parte consistentedella popolazione minorile maschile e femminile ospite degli Istituti di pena. I Paesi di provenienza sono soprattutto quelli nordafricani e dell’Europa orientale (Romania, Bosnia-Erzegovina). La presente indagine si sofferma in special modo su due categorie particolarmente vulnerabili da un punto di vista sociale: i minori stranieri non accompagnati (Msna) e i rom e sinti.
I minori stranieri non accompagnati, al di là delle molteplici realtà di cui sono espressione, costituiscono sicuramente una categoria vulnerabile e a rischio di inclusione in circuiti malavitosi. Al 31 dicembre 2016, risultavano presenti in Italia 17.373 Msna, il 45,7% in più rispetto alle presenze registrate l’anno precedente.
Tra i detenuti stranieri sono spesso conteggiati i rom e i sinti (molto rappresentati tra le ragazze in Ipm), che frequentemente sono nati in Italia ma che, non potendo dimostrare la continuità della loro presenza sul territorio a causa della mancanza di documenti, non sono formalmente italiani. Spesso si trovano in unasituazione che è stata definita da alcuni operatori del settore quale “apolidia di fatto”. L’attributo “di fatto” è doveroso, in quanto l’apolidia vera e propria, che implica un procedimento per il suo riconoscimento, fa ricadere un insieme di diritti in capo al soggetto riconosciuto come apolide che in questo caso vengono invece a mancare.
I dati statistici diffusi dal Ministero della Giustizia nel febbraio 2017 mostrano comeglobalmente il numero degli ingressi in Ipm di ragazzi maschi e femmine sia andato diminuendo negli ultimi dieci anni, passando dai1.337 del 2007 ai 1.141 del 2016.Si èleggermente ridotta nel medesimo arco di tempo anche la percentuale degli ingressi dei ragazzi detenuti stranieri, che è passata da 46.81% a 45.48%.
La seguente tabella riporta le presenze negli Ipm alla data del 31gennaio 2017 disaggregate per genere e classi di età:
I minori stranieri non accompagnati, al di là delle molteplici realtà di cui sono espressione, costituiscono sicuramente una categoria vulnerabile e a rischio di inclusione in circuiti malavitosi. Al 31 dicembre 2016, risultavano presenti in Italia 17.373 Msna, il 45,7% in più rispetto alle presenze registrate l’anno precedente.
Tra i detenuti stranieri sono spesso conteggiati i rom e i sinti (molto rappresentati tra le ragazze in Ipm), che frequentemente sono nati in Italia ma che, non potendo dimostrare la continuità della loro presenza sul territorio a causa della mancanza di documenti, non sono formalmente italiani. Spesso si trovano in unasituazione che è stata definita da alcuni operatori del settore quale “apolidia di fatto”. L’attributo “di fatto” è doveroso, in quanto l’apolidia vera e propria, che implica un procedimento per il suo riconoscimento, fa ricadere un insieme di diritti in capo al soggetto riconosciuto come apolide che in questo caso vengono invece a mancare.
I dati statistici diffusi dal Ministero della Giustizia nel febbraio 2017 mostrano comeglobalmente il numero degli ingressi in Ipm di ragazzi maschi e femmine sia andato diminuendo negli ultimi dieci anni, passando dai1.337 del 2007 ai 1.141 del 2016.Si èleggermente ridotta nel medesimo arco di tempo anche la percentuale degli ingressi dei ragazzi detenuti stranieri, che è passata da 46.81% a 45.48%.
La seguente tabella riporta le presenze negli Ipm alla data del 31gennaio 2017 disaggregate per genere e classi di età:
Maschi14-17 anni | Femmine 14-17 anni |
Maschi 18-24 anni | Femmine 18-24 anni | Totale | ||
Italiani | 75 | 4 | 174 | 3 | 256 | 56,6% |
Stranieri | 78 | 7 | 91 | 20 | 196 | 43,4% |
Totale generale | 153 | 11 | 265 | 23 | 452 |
(Elaborazioni IRPPS su dati del Ministero della Giustizia)
Come si vede, la percentuale dei detenuti stranieri ha subitoun’ulteriore diminuzione rispetto all’anno precedente.
Nonostante la lieve diminuzione, vi è tuttavia una sovra-rappresentazione dei minori stranieri nelle carceri italiane rispetto alla loro presenza sul territorio, cheè da mettere in relazione alle difficoltà incontrate nel dare nei loro confronti piena attuazione al principio di residualità della misura detentiva, uno dei cardini del sistema processuale minorile codificato dal Dpr 448/88.
È importante notare come il tempo medio di permanenza in Ipm dei giovani stranieri sia inferiore a quello degli italiani (nel 2016, 117 versus 138 giorni). La differenza è ancor più marcata nel caso delle ragazze (sempre nel 2016, 93 versus 130 giorni). Ciò può essere ricondotto alla circostanza che ai minori stranieri, che spesso non hanno in Italia una famiglia o una figura adulta di riferimento che consenta l’applicazione di misure non detentive, viene più frequentemente applicata una misura detentiva a fronte di reati minori.
I freddi dati quantitativi che abbiamo riportato sono utili a comprendere la situazione ma non possono tuttavia dire nulla su chi sono questi ragazzi e ragazze, sulle storie che hanno alle spalle, sulle caratteristiche personali, le esigenze e aspirazioni, le reazioni all’ambiente di reclusione, i legami affettivi con i familiari, i possibili percorsi di superamento dei vincoli imposti alla loro crescita da contesti sfavorevoli e incapacità. Accanto alle fragilità, vi sono certamente punti di forza e potenzialità che occorre conoscere bene per progettare percorsi di affrancamento.
Non condividiamo quella rappresentazione sociale che fa leva esclusivamente sullacondizione di vittima di questi minori, mettendo a fuoco unicamente lo choc psicologico o il dramma sociale. Preferiamo fare riferimento al concetto di crisi, il cui etimo rinvia a discernimento, racchiudendo dunque la possibilità di una scelta e la promessa di una opportunità.
La nostra indagine quindi ha cercato anche di individuare gli elementi che permettano di definire meglio la condizione di crisi in cui si trovano i minori stranieri che entrano nel circuito penale e le manifestazioni di una sua evoluzione. Per questo scopo ci è sembrato utile interpellare i punti di vista di operatori che entrano in contatto con le vite di questi ragazzi, svolgendo ruoli istituzionali diversi nel prendersi cura di processi di crescita e formazione. Lo abbiamo fatto, da un lato, attraverso questionari inviati tutti gli Ipm e, dall’altro, attraverso un focus sulla città di Roma che ha utilizzato interviste a testimoni privilegiati incentrate sugli aspetti emotivi, progettuali, educativi e rieducativi delle giovani e dei giovani detenuti. Riportiamo in calce l’elenco delle persone intervistate e i loro ruoli. Riportiamo anche intere frasi tratte dalle interviste, perchécapaci di riflettere efficacemente i loro sguardi e le loro emozioni sui problemi toccati durante la conversazione. La realtà romana costituisce un’occasione di riflessione significativa per un focus territoriale relativo alla situazione detentiva dei minori e dei giovani adulti. Roma, infatti, costituisce un punto di connessione geografico e simbolico tra il Settentrione e il Meridione, e ciò è visibile anche nella varietà delle presenze nell’Ipm. Inoltre, l’Ipm romano di Casal del Marmo costituisce una delle due realtà nazionali che includono sezioni sia femminili che maschili, il che ci ha consentito di articolare anche in una dimensione di genere i nostri dialoghi con gli operatori intervistati e le nostre riflessioni.
Nonostante la lieve diminuzione, vi è tuttavia una sovra-rappresentazione dei minori stranieri nelle carceri italiane rispetto alla loro presenza sul territorio, cheè da mettere in relazione alle difficoltà incontrate nel dare nei loro confronti piena attuazione al principio di residualità della misura detentiva, uno dei cardini del sistema processuale minorile codificato dal Dpr 448/88.
È importante notare come il tempo medio di permanenza in Ipm dei giovani stranieri sia inferiore a quello degli italiani (nel 2016, 117 versus 138 giorni). La differenza è ancor più marcata nel caso delle ragazze (sempre nel 2016, 93 versus 130 giorni). Ciò può essere ricondotto alla circostanza che ai minori stranieri, che spesso non hanno in Italia una famiglia o una figura adulta di riferimento che consenta l’applicazione di misure non detentive, viene più frequentemente applicata una misura detentiva a fronte di reati minori.
I freddi dati quantitativi che abbiamo riportato sono utili a comprendere la situazione ma non possono tuttavia dire nulla su chi sono questi ragazzi e ragazze, sulle storie che hanno alle spalle, sulle caratteristiche personali, le esigenze e aspirazioni, le reazioni all’ambiente di reclusione, i legami affettivi con i familiari, i possibili percorsi di superamento dei vincoli imposti alla loro crescita da contesti sfavorevoli e incapacità. Accanto alle fragilità, vi sono certamente punti di forza e potenzialità che occorre conoscere bene per progettare percorsi di affrancamento.
Non condividiamo quella rappresentazione sociale che fa leva esclusivamente sullacondizione di vittima di questi minori, mettendo a fuoco unicamente lo choc psicologico o il dramma sociale. Preferiamo fare riferimento al concetto di crisi, il cui etimo rinvia a discernimento, racchiudendo dunque la possibilità di una scelta e la promessa di una opportunità.
La nostra indagine quindi ha cercato anche di individuare gli elementi che permettano di definire meglio la condizione di crisi in cui si trovano i minori stranieri che entrano nel circuito penale e le manifestazioni di una sua evoluzione. Per questo scopo ci è sembrato utile interpellare i punti di vista di operatori che entrano in contatto con le vite di questi ragazzi, svolgendo ruoli istituzionali diversi nel prendersi cura di processi di crescita e formazione. Lo abbiamo fatto, da un lato, attraverso questionari inviati tutti gli Ipm e, dall’altro, attraverso un focus sulla città di Roma che ha utilizzato interviste a testimoni privilegiati incentrate sugli aspetti emotivi, progettuali, educativi e rieducativi delle giovani e dei giovani detenuti. Riportiamo in calce l’elenco delle persone intervistate e i loro ruoli. Riportiamo anche intere frasi tratte dalle interviste, perchécapaci di riflettere efficacemente i loro sguardi e le loro emozioni sui problemi toccati durante la conversazione. La realtà romana costituisce un’occasione di riflessione significativa per un focus territoriale relativo alla situazione detentiva dei minori e dei giovani adulti. Roma, infatti, costituisce un punto di connessione geografico e simbolico tra il Settentrione e il Meridione, e ciò è visibile anche nella varietà delle presenze nell’Ipm. Inoltre, l’Ipm romano di Casal del Marmo costituisce una delle due realtà nazionali che includono sezioni sia femminili che maschili, il che ci ha consentito di articolare anche in una dimensione di genere i nostri dialoghi con gli operatori intervistati e le nostre riflessioni.
Chi sono i giovani stranieri non accompagnati per come emergono dalle interviste
Negli Ipm finiscono minori e giovani adulti per i quali sono state sperimentate senza successo altre misure o che non hanno risorse sociali e familiari capaci di garantire l’applicazione di una misura non carceraria, ci dice la dirigente del Dipartimento per la Giustizia Minorile. L’operatrice di Ussm (Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni) da noi intervistata ha anche notato come, paradossalmente, i minori italiani aggregati a sistemi malavitosi stabilmente operanti sul territorio, in cui gli stranieri entrano più difficilmente, ne siano completamente inglobati e in un certo senso protetti.
La direttrice dell’Ipm di Roma osserva che i minorenni che arrivano in Istituto provengono da condizioni di degrado totale, hanno deficit cognitivi, sofferenze psicologiche, condizioni sanitarie ed igieniche molto cattive (scabbia, pidocchi, ecc.), tossicodipendenze. Tra loro ci sono anche, afferma, “delinquenti strutturati” che si dichiarano minorenni ma probabilmente non lo sono ed è difficile verificarlo.
I ragazzi stranieri arrivano in gran parte dall’Africa, ma ogni città italiana ha la sua peculiarità rispetto ai Paesi di provenienza: a Roma, per esempio, prevalgono gli egiziani. A Milano e Genova sono presenti anche molti sudamericani. Il 70% dei Msna è in transito e si appoggia a catene migratorie che si sono radicate nel nord Europa. Per gli egiziani queste filiere (Francia, Germania, Belgio) sono più conflittuali e i ragazzi tendono a fermarsi di più sul nostro territorio. Molti hanno l’obiettivo di raggiungere un contatto in Italia che promette una sistemazione lavorativa, per esempio lavoro in una frutteria in condizioni di sfruttamento oppure un ruolo di manovalanza nel traffico di stupefacenti. Una volta entrati in circuiti devianti di droga o prostituzione, difficilmente si piegano a riprendere un lavoro come quello della frutteria.
A Roma sono pochi quelli che provengono dalle città e molti quelli che vengono da zone agricole estremamente povere.
Generalmente le famiglie, convinte che l’Italia offra più opportunità e che sia possibile lavorare anche per i minorenni, per pagare il viaggio al figlio si sono indebitate con organizzazioni che prestano denaro (3.000-5.000 euro), e restano ostaggio dei trafficanti fintanto che non hanno pagato il debito.
I ragazzi, quindi, si sentono fortemente responsabilizzati, ma anche ‘adultizzati’ e valorizzati nel mandare a casa il denaro necessario; spesso temono ritorsioni e non sono inclini ad accettare le offerte fornite dal sistema, come per esempio un tirocinio formativo, perché non risolve il loro problema pratico di disporre rapidamente di somme considerevoli. Il ritorno in patria è vissuto come un fallimento del progetto migratorio di tutta la famiglia, è una ‘macchia’. “Hanno un mandato che li rende più oggetti che soggetti, solo dopo si possono concentrare su sé, ma sempre mantenendo l’approccio zio d’America. La possibilità di devianza dipende dall’urgenza di mantenere una famiglia, dalla pazienza del ragazzo e della famiglia d’origine (…). Pesa sulla formazione di questi ragazzi anche il contesto sociale/politico di Paesi con regimi dittatoriali nei quali anche le famiglie assumono caratteristiche di sopraffazione”, ci dice l’educatrice del Cpa (Centro di Prima Accoglienza).
Inoltre pesano su di loro i modelli consumistici, come del restoper i ragazzi italiani.
I ragazzi non si raccontano volentieri, tendenzialmente non parlano del loro viaggio e se lo fanno è per flash: i giorni del viaggio, i morti, il costo del viaggio, cosa si aspettavano ma non hanno trovato. Per i docenti in Ipm, non fare domande è una regola non scritta. Solo se si crea un certocontesto di comunicazione ascoltano quel che i ragazzi vogliono dire.
Sono per lo più molto legati alla loro famiglia, alle madri in particolare, ma non sempre sono in collegamento telefonico. Poter scrivere alle famiglie è a volte una motivazione a imparare per chi non è alfabetizzato.
Ma la docente di primo livello della scuola secondaria superiore dell’Ipm di Roma ci dice anche che ci sono ragazzi che vogliono arrivare al titolo di terza media perché permetterebbe loro di accedere a percorsi professionalizzanti e che i ragazzi più grandi riescono ad essere costanti nello studio. Anche se non tutti, alcuni frequentano perché gli piace imparare.
Alcuni aspetti critici sono stati evidenziati da più operatori. In questi anni il livello formativo dei ragazzi è sempre più basso, soprattutto dei minori egiziani. Ci sono anche giovani analfabeti, mentre molti hanno solo tre o quattro anni di scolarizzazione. Non hanno familiarità con le tecnologie digitali. Tunisini e marocchini sono più acculturati degli egiziani, molti hanno fatto la terza media. Lo stesso calo di scolarizzazione è stato osservato nei ragazzi rumeni. Alcuni giovani stranieri di seconda generazione, invece, potrebbero frequentare corsi di scuola secondaria superiore, ma non sempre il carcere riesce a garantire la loro attivazione.
Sono frequenti il disagio psichico, disturbi psichiatrici a volte collegati all’uso precoce di sostanze psicotrope di cattiva qualità e anche deficit di apprendimento, dislessia, discalculia.
Accanto a queste fragilità, nei ragazzi maschi nordafricani si osserva l’interiorizzazione di un senso di dominanza, di origine culturale, che li porta ad assumere atteggiamenti aggressivi di sfida nei confronti di altri maschi e di svalutazione della figura femminile. Questo può portare a non accettare facilmente la posizione di ‘minore’ e a disinvestire di autorevolezza le donne che con un ruolo istituzionale – educatrici, docenti – interagiscono con loro. “Una volta ho ripreso un ragazzo e dopo mi ha detto: non ti permettere più di sgridarmi davanti agli altri! In classe dibattiamo molto del rispetto reciproco (…). Maschilismo, omofobia sono argomenti spesso affrontati, ma non è facile cambiare modelli culturali. Gli arabi che hanno fatto letture del Corano dicono: ma che stai dicendo!”, ci racconta una docente dell’Ipm di Roma. La presenza di mediatori arabi è importante anche sotto questo aspetto: offrire modelli di superamento di questi stereotipi culturali.
Per i giovani minori egiziani, l’aspetto religioso con i momenti di preghiera e il rispetto dei dettami alimentari contano molto, anche se non chiedono di interagire con un iman odi andare in moschea, anche se fumano o bevono alcool. Generalmente non sono in collegamento con le comunità mussulmane.
La direttrice dell’Ipm di Roma osserva che i minorenni che arrivano in Istituto provengono da condizioni di degrado totale, hanno deficit cognitivi, sofferenze psicologiche, condizioni sanitarie ed igieniche molto cattive (scabbia, pidocchi, ecc.), tossicodipendenze. Tra loro ci sono anche, afferma, “delinquenti strutturati” che si dichiarano minorenni ma probabilmente non lo sono ed è difficile verificarlo.
I ragazzi stranieri arrivano in gran parte dall’Africa, ma ogni città italiana ha la sua peculiarità rispetto ai Paesi di provenienza: a Roma, per esempio, prevalgono gli egiziani. A Milano e Genova sono presenti anche molti sudamericani. Il 70% dei Msna è in transito e si appoggia a catene migratorie che si sono radicate nel nord Europa. Per gli egiziani queste filiere (Francia, Germania, Belgio) sono più conflittuali e i ragazzi tendono a fermarsi di più sul nostro territorio. Molti hanno l’obiettivo di raggiungere un contatto in Italia che promette una sistemazione lavorativa, per esempio lavoro in una frutteria in condizioni di sfruttamento oppure un ruolo di manovalanza nel traffico di stupefacenti. Una volta entrati in circuiti devianti di droga o prostituzione, difficilmente si piegano a riprendere un lavoro come quello della frutteria.
A Roma sono pochi quelli che provengono dalle città e molti quelli che vengono da zone agricole estremamente povere.
Generalmente le famiglie, convinte che l’Italia offra più opportunità e che sia possibile lavorare anche per i minorenni, per pagare il viaggio al figlio si sono indebitate con organizzazioni che prestano denaro (3.000-5.000 euro), e restano ostaggio dei trafficanti fintanto che non hanno pagato il debito.
I ragazzi, quindi, si sentono fortemente responsabilizzati, ma anche ‘adultizzati’ e valorizzati nel mandare a casa il denaro necessario; spesso temono ritorsioni e non sono inclini ad accettare le offerte fornite dal sistema, come per esempio un tirocinio formativo, perché non risolve il loro problema pratico di disporre rapidamente di somme considerevoli. Il ritorno in patria è vissuto come un fallimento del progetto migratorio di tutta la famiglia, è una ‘macchia’. “Hanno un mandato che li rende più oggetti che soggetti, solo dopo si possono concentrare su sé, ma sempre mantenendo l’approccio zio d’America. La possibilità di devianza dipende dall’urgenza di mantenere una famiglia, dalla pazienza del ragazzo e della famiglia d’origine (…). Pesa sulla formazione di questi ragazzi anche il contesto sociale/politico di Paesi con regimi dittatoriali nei quali anche le famiglie assumono caratteristiche di sopraffazione”, ci dice l’educatrice del Cpa (Centro di Prima Accoglienza).
Inoltre pesano su di loro i modelli consumistici, come del restoper i ragazzi italiani.
I ragazzi non si raccontano volentieri, tendenzialmente non parlano del loro viaggio e se lo fanno è per flash: i giorni del viaggio, i morti, il costo del viaggio, cosa si aspettavano ma non hanno trovato. Per i docenti in Ipm, non fare domande è una regola non scritta. Solo se si crea un certocontesto di comunicazione ascoltano quel che i ragazzi vogliono dire.
Sono per lo più molto legati alla loro famiglia, alle madri in particolare, ma non sempre sono in collegamento telefonico. Poter scrivere alle famiglie è a volte una motivazione a imparare per chi non è alfabetizzato.
Ma la docente di primo livello della scuola secondaria superiore dell’Ipm di Roma ci dice anche che ci sono ragazzi che vogliono arrivare al titolo di terza media perché permetterebbe loro di accedere a percorsi professionalizzanti e che i ragazzi più grandi riescono ad essere costanti nello studio. Anche se non tutti, alcuni frequentano perché gli piace imparare.
Alcuni aspetti critici sono stati evidenziati da più operatori. In questi anni il livello formativo dei ragazzi è sempre più basso, soprattutto dei minori egiziani. Ci sono anche giovani analfabeti, mentre molti hanno solo tre o quattro anni di scolarizzazione. Non hanno familiarità con le tecnologie digitali. Tunisini e marocchini sono più acculturati degli egiziani, molti hanno fatto la terza media. Lo stesso calo di scolarizzazione è stato osservato nei ragazzi rumeni. Alcuni giovani stranieri di seconda generazione, invece, potrebbero frequentare corsi di scuola secondaria superiore, ma non sempre il carcere riesce a garantire la loro attivazione.
Sono frequenti il disagio psichico, disturbi psichiatrici a volte collegati all’uso precoce di sostanze psicotrope di cattiva qualità e anche deficit di apprendimento, dislessia, discalculia.
Accanto a queste fragilità, nei ragazzi maschi nordafricani si osserva l’interiorizzazione di un senso di dominanza, di origine culturale, che li porta ad assumere atteggiamenti aggressivi di sfida nei confronti di altri maschi e di svalutazione della figura femminile. Questo può portare a non accettare facilmente la posizione di ‘minore’ e a disinvestire di autorevolezza le donne che con un ruolo istituzionale – educatrici, docenti – interagiscono con loro. “Una volta ho ripreso un ragazzo e dopo mi ha detto: non ti permettere più di sgridarmi davanti agli altri! In classe dibattiamo molto del rispetto reciproco (…). Maschilismo, omofobia sono argomenti spesso affrontati, ma non è facile cambiare modelli culturali. Gli arabi che hanno fatto letture del Corano dicono: ma che stai dicendo!”, ci racconta una docente dell’Ipm di Roma. La presenza di mediatori arabi è importante anche sotto questo aspetto: offrire modelli di superamento di questi stereotipi culturali.
Per i giovani minori egiziani, l’aspetto religioso con i momenti di preghiera e il rispetto dei dettami alimentari contano molto, anche se non chiedono di interagire con un iman odi andare in moschea, anche se fumano o bevono alcool. Generalmente non sono in collegamento con le comunità mussulmane.
Chi sono le giovani rom e sinti per come emergono dalle interviste
Le giovani rom appartengono a comunità stanziali diverse, cristiane o mussulmane, con famiglie allargate, a volte unite a volte molto disgregate.
I rom sentono come loro unica identità l’appartenenza al popolo rom, la tradizione di “quel modo di vivere”, una specie di mitologia storica, in assenza di altri fattori identitari come uno Stato, una lingua comune, codici scritti.
La dirigente del Dipartimento per la Giustizia Minorile osserva che “alcune ragazze manifestano la voglia di restare fuori dalla cultura rom, ma quando si ipotizza un progetto, si cercano strade e si trovano soluzioni, la famiglia le riassorbe nella cultura rom”.
“Una ragazza che non aveva ancora compito diciotto anni aveva trovato un apprendistato, ma il padre non ha voluto firmare il contratto perché voleva essere pagato (…). In generale un ragazzo romdeve fare uno sforzo immane per reggere la pressione dei compagni del campo che guadagnano tanto rubando”, racconta l’educatrice del Cpa.
Le meno scolarizzate sembrano risultare le ragazze serbe; le ragazze della comunità bosniaca in genere hanno invece frequentato la scuola. Nei campi rom il Comune aveva istituito la figura del mediatore scolastico che assisteva le famiglie nell’iscrizione e nell’ingresso a scuola. Questa figura è stata in anni recenti cancellata.
Le giovani rom portano in se stesse il rapporto impari maschio/femmina, un approccio svalutante dell’essere femmina. “Spesso ho notato che le ragazze di 14-15 anni si sentono a disagio se non hanno una proposta di matrimonio. Superare i diciotto anni vuol dire sentirsi già vecchie. Nel momento in cui hanno la proposta, si sentono apprezzate”, afferma l’educatore del Cpa.
Nei campi rom ci sono ormai anche molti uomini spacciatori, ma sono le ragazze minori a finire in detenzione perché è a loro che i maschi fanno tenere la droga.
Il reato più comune è però il furto, che è incentivato anche dagli obblighi che una ragazza che si sposa contrae nei confronti della famiglia dello sposo. Il valore della sposa, determinato dalla somma versata dai futuri suoceri ai genitori in occasione del matrimonio, può dipendere da un insieme di fattori che vanno dal prestigio della famiglia, all’età e fisicità della giovane (bellezza e verginità), alla sua capacità di districarsi nell’economia domestica e che possono includere anche l’abilità nel furto. Dopo il matrimonio, la sposa dovrà in un certo senso restituire il denaro.
Un primo obiettivo degli educatori consiste proprio nel rendere le ragazze consapevoli di diritti e motivarle a non accettare un ruolo predeterminato.
Il carcere è un rischio che fa parte della loro vita, accettato, reiterato, sebbene pesi molto. “Soprattutto le ragazze bosniache che vivono nei campi sentono molto la costrizione di trovarsi in una struttura chiusa, diperdere libertà e abitudini di vita. Magari hanno lasciato fuori il fidanzato o il marito, i figli. Dopo l’entrata in carcere perdono i rapporti con la famiglia o hanno sporadici contatti telefonici. È anche difficile a volte rintracciare la famiglia perché cambiafrequentemente il numero del cellulare. Vivono quindi un’esperienza di abbandono”, sostiene un’educatrice dell’Ipm di Roma. La stessa educatrice le definisce “belle, simpatiche, allegre, piene di vita, sensibili. Gli si illuminano gli occhi quando fanno cose nuove. Hanno molte capacità di adattamento”.
Tra le ragazze nascono rapporti di amicizia forti che a volte continuano anche dopo l’uscita dall’Istituto e sono un punto di forza.
Una docente dell’Ipm di Roma ci dice: “Le ragazze rom amano molto cantare e ballare e sono brave! Vorrebbero sempre ascoltare musica. I cantanti sono i loro ideali”. Quindi la musica diventa anche una chiave per entrare in relazione, per creare motivazioni su altri obbiettivi dell’intervento educativo.
Nonostante la loro vivacità, non è facile motivare all’istruzione scolastica le ragazze rom, perché a volte sono così deprivate, così frustrate da esperienze precedenti di emarginazione che sembra nessuna offerta formativa possa interessare loro, ancheperché molto difficilmente proseguiranno fuori dal carcere un percorso che le porti verso una professionalità. Però hanno aspirazioni: vorrebbero diventare estetiste, parrucchiere, cantanti. Una volta creata una relazione positiva con i docenti, sono più inclini a manifestare i propri interessi, che vertono su vari argomenti vicinialle loro vite: la sessualità, la gravidanza, la cura dei neonati, il corpo umano, ma anche sulla vita degli animali, le stelle, i terremoti, l’origine del mondo. A volte sono più motivate e si impegnano molto più dei ragazzi perché vedono questo impegno come un riscatto personale.
Le ragazze sono inoltre contente di imparare a leggere e a scrivere per acquisire autonomia. Una volta imparato a leggere, diventano accanite lettricidi romanzi rosa e di poesie d’amore per scrivere lettereai ragazzi. “Per loro che sono molto esperte con le tecnologie digitali, l’uso di modi più lenti, alternativi agli sms, può trasformarsi anche in un valore”, afferma l’educatrice dell’Ipm di Roma.
I rom sentono come loro unica identità l’appartenenza al popolo rom, la tradizione di “quel modo di vivere”, una specie di mitologia storica, in assenza di altri fattori identitari come uno Stato, una lingua comune, codici scritti.
La dirigente del Dipartimento per la Giustizia Minorile osserva che “alcune ragazze manifestano la voglia di restare fuori dalla cultura rom, ma quando si ipotizza un progetto, si cercano strade e si trovano soluzioni, la famiglia le riassorbe nella cultura rom”.
“Una ragazza che non aveva ancora compito diciotto anni aveva trovato un apprendistato, ma il padre non ha voluto firmare il contratto perché voleva essere pagato (…). In generale un ragazzo romdeve fare uno sforzo immane per reggere la pressione dei compagni del campo che guadagnano tanto rubando”, racconta l’educatrice del Cpa.
Le meno scolarizzate sembrano risultare le ragazze serbe; le ragazze della comunità bosniaca in genere hanno invece frequentato la scuola. Nei campi rom il Comune aveva istituito la figura del mediatore scolastico che assisteva le famiglie nell’iscrizione e nell’ingresso a scuola. Questa figura è stata in anni recenti cancellata.
Le giovani rom portano in se stesse il rapporto impari maschio/femmina, un approccio svalutante dell’essere femmina. “Spesso ho notato che le ragazze di 14-15 anni si sentono a disagio se non hanno una proposta di matrimonio. Superare i diciotto anni vuol dire sentirsi già vecchie. Nel momento in cui hanno la proposta, si sentono apprezzate”, afferma l’educatore del Cpa.
Nei campi rom ci sono ormai anche molti uomini spacciatori, ma sono le ragazze minori a finire in detenzione perché è a loro che i maschi fanno tenere la droga.
Il reato più comune è però il furto, che è incentivato anche dagli obblighi che una ragazza che si sposa contrae nei confronti della famiglia dello sposo. Il valore della sposa, determinato dalla somma versata dai futuri suoceri ai genitori in occasione del matrimonio, può dipendere da un insieme di fattori che vanno dal prestigio della famiglia, all’età e fisicità della giovane (bellezza e verginità), alla sua capacità di districarsi nell’economia domestica e che possono includere anche l’abilità nel furto. Dopo il matrimonio, la sposa dovrà in un certo senso restituire il denaro.
Un primo obiettivo degli educatori consiste proprio nel rendere le ragazze consapevoli di diritti e motivarle a non accettare un ruolo predeterminato.
Il carcere è un rischio che fa parte della loro vita, accettato, reiterato, sebbene pesi molto. “Soprattutto le ragazze bosniache che vivono nei campi sentono molto la costrizione di trovarsi in una struttura chiusa, diperdere libertà e abitudini di vita. Magari hanno lasciato fuori il fidanzato o il marito, i figli. Dopo l’entrata in carcere perdono i rapporti con la famiglia o hanno sporadici contatti telefonici. È anche difficile a volte rintracciare la famiglia perché cambiafrequentemente il numero del cellulare. Vivono quindi un’esperienza di abbandono”, sostiene un’educatrice dell’Ipm di Roma. La stessa educatrice le definisce “belle, simpatiche, allegre, piene di vita, sensibili. Gli si illuminano gli occhi quando fanno cose nuove. Hanno molte capacità di adattamento”.
Tra le ragazze nascono rapporti di amicizia forti che a volte continuano anche dopo l’uscita dall’Istituto e sono un punto di forza.
Una docente dell’Ipm di Roma ci dice: “Le ragazze rom amano molto cantare e ballare e sono brave! Vorrebbero sempre ascoltare musica. I cantanti sono i loro ideali”. Quindi la musica diventa anche una chiave per entrare in relazione, per creare motivazioni su altri obbiettivi dell’intervento educativo.
Nonostante la loro vivacità, non è facile motivare all’istruzione scolastica le ragazze rom, perché a volte sono così deprivate, così frustrate da esperienze precedenti di emarginazione che sembra nessuna offerta formativa possa interessare loro, ancheperché molto difficilmente proseguiranno fuori dal carcere un percorso che le porti verso una professionalità. Però hanno aspirazioni: vorrebbero diventare estetiste, parrucchiere, cantanti. Una volta creata una relazione positiva con i docenti, sono più inclini a manifestare i propri interessi, che vertono su vari argomenti vicinialle loro vite: la sessualità, la gravidanza, la cura dei neonati, il corpo umano, ma anche sulla vita degli animali, le stelle, i terremoti, l’origine del mondo. A volte sono più motivate e si impegnano molto più dei ragazzi perché vedono questo impegno come un riscatto personale.
Le ragazze sono inoltre contente di imparare a leggere e a scrivere per acquisire autonomia. Una volta imparato a leggere, diventano accanite lettricidi romanzi rosa e di poesie d’amore per scrivere lettereai ragazzi. “Per loro che sono molto esperte con le tecnologie digitali, l’uso di modi più lenti, alternativi agli sms, può trasformarsi anche in un valore”, afferma l’educatrice dell’Ipm di Roma.
Minori stranieri e ragazze rom, diversi ed uguali
Dalle osservazioni su queste due realtà così differentiraccontate dagli intervistati, emergono punti comuni che rendono conto di una “prigionia a priori” di questi adolescenti, della trappola in cui spesso si trovano strette le loro vite.
In entrambe le realtà il passaggio dall’infanzia all’essere adulti, che le società moderne considerano particolarmente delicato e meritevole di protezione, avviene in modi segnati, confermando come il concetto di adolescenza non sia così condiviso in molti Paesi e in molte culture. In entrambii casi i giovani e le giovani sono frequentemente inviati a delinquere per altri o sotto pressione di adulti. In entrambi i casi si fa fatica a liberarsi. In entrambi i casi non si trova facile accoglienza al di fuori del proprio contesto. Quando si è raggiunto un livello di competenza, si è detentori di un titolo spendibile nel mercato del lavoro e magari si ha già un possibile percorso verso un impiego, anche in questi casi, comunque limitati, si incontrano difficoltà enormi, legate ad aspetti legali e burocratici, all’avere i documenti in regola o anche alla cultura di appartenenza.
Naturalmente molte famiglie rom sono fuori dai percorsi di devianza. Nei gruppi in cui il furto è praticato, tuttavia, le donne e le giovani costituiscono una risorsa importante. Ma anche per gli Msna la famiglia costituisce un nucleo da sostenere. Questa talvolta può attendersi molto dal figlio, non conoscendo la situazione reale del Paese in cui è giunto e sopravvalutando le prospettive che gli si presentano. Talvolta chi è ‘vittima’ è anche e soprattutto causa della devianza del minore. Causa della devianza possono essere considerati anche i genitori che spingono i figli verso attività illecite trovandosi loro stessi nella condizione di subire la violenza di società nelle quali sono negati i loro diritti. La dominanza dei maschi sulle femmine, ancora viva in alcune culture, diventa in parte responsabile dei vincoli che imprigionano i soggetti più deboli impedendo loro di costruire la loro vita.
In entrambe le realtà il passaggio dall’infanzia all’essere adulti, che le società moderne considerano particolarmente delicato e meritevole di protezione, avviene in modi segnati, confermando come il concetto di adolescenza non sia così condiviso in molti Paesi e in molte culture. In entrambii casi i giovani e le giovani sono frequentemente inviati a delinquere per altri o sotto pressione di adulti. In entrambi i casi si fa fatica a liberarsi. In entrambi i casi non si trova facile accoglienza al di fuori del proprio contesto. Quando si è raggiunto un livello di competenza, si è detentori di un titolo spendibile nel mercato del lavoro e magari si ha già un possibile percorso verso un impiego, anche in questi casi, comunque limitati, si incontrano difficoltà enormi, legate ad aspetti legali e burocratici, all’avere i documenti in regola o anche alla cultura di appartenenza.
Naturalmente molte famiglie rom sono fuori dai percorsi di devianza. Nei gruppi in cui il furto è praticato, tuttavia, le donne e le giovani costituiscono una risorsa importante. Ma anche per gli Msna la famiglia costituisce un nucleo da sostenere. Questa talvolta può attendersi molto dal figlio, non conoscendo la situazione reale del Paese in cui è giunto e sopravvalutando le prospettive che gli si presentano. Talvolta chi è ‘vittima’ è anche e soprattutto causa della devianza del minore. Causa della devianza possono essere considerati anche i genitori che spingono i figli verso attività illecite trovandosi loro stessi nella condizione di subire la violenza di società nelle quali sono negati i loro diritti. La dominanza dei maschi sulle femmine, ancora viva in alcune culture, diventa in parte responsabile dei vincoli che imprigionano i soggetti più deboli impedendo loro di costruire la loro vita.
Indizi di cesura con la negatività
Gli operatori del sistema penale minorile che abbiamo intervistato sono coinvolti in interazioni più o meno dirette e più o meno continuative con i giovani di cui si occupano, secondo i ruoli e la collocazione nelle strutture. Sono persone responsabili di azioni che incidono su componenti diverse di un percorso rieducativo che porti a uscire da una condizione di illegalità. Sono persone che a loro volta sentono i vincoli dei sistemi in cui operano e con ansia cercano i segnali della positività delle loro azioni, attente a riconoscere e sostenere i passi in avanti.
Nei colloqui abbiamo sollecitatogli intervistati a esprimersi proprio su questo aspetto: il riconoscimento di percorsi di successo, di gradi di liberazione personale e dei fattori che sono apparsi salienti nel produrre queste positività all’interno di un insieme dinamico di condizioni, che riguardano sia i contest esterni che le interiorità individuali.
Non sono stati molti i successi ricordati. Riportiamo qua sotto, senza commento, dei flash tratti dalle interviste, capaci di far emergere alcune storie. Questi racconti sono stati accompagnati da interessanti commenti sulla molla che fa scattare nei ragazzi la determinazione a superare la propria condizione, anche se ciò è doloroso e faticoso. A volte è solo l’avvio di un processo lento che maturerà in tempi anche lunghi, semi che germogliano a beneficio dei figli. Ci sembra di poter raggruppare le osservazioni attorno a tre aspetti, sfuggenti ma che tornano più volte in trasparenza nei discorsi: l’interruzione di percorsi di sfiducia, il recupero di autostima, la progettualità. Alla base della fiducia c’è la creazione di relazioni umane che danno senso alle esperienze a cui si partecipa. Riuscire a motivare i ragazzi è il principale fattore di successo. Probabilmente la motivazione scatta quando si comincia a scoprire se stessi, le proprie capacitàsu cui contare, attuali e potenziali, interessi ignoti prima, la possibilità di raggiungere un prodotto finito, visibile, qualcosa da offrire agli altri, fosse anche solo una pizza! Questo permette di non negare più le proprie aspirazioni e di immaginarsi in progetti di una vita ‘altra’.
Nei colloqui abbiamo sollecitatogli intervistati a esprimersi proprio su questo aspetto: il riconoscimento di percorsi di successo, di gradi di liberazione personale e dei fattori che sono apparsi salienti nel produrre queste positività all’interno di un insieme dinamico di condizioni, che riguardano sia i contest esterni che le interiorità individuali.
Non sono stati molti i successi ricordati. Riportiamo qua sotto, senza commento, dei flash tratti dalle interviste, capaci di far emergere alcune storie. Questi racconti sono stati accompagnati da interessanti commenti sulla molla che fa scattare nei ragazzi la determinazione a superare la propria condizione, anche se ciò è doloroso e faticoso. A volte è solo l’avvio di un processo lento che maturerà in tempi anche lunghi, semi che germogliano a beneficio dei figli. Ci sembra di poter raggruppare le osservazioni attorno a tre aspetti, sfuggenti ma che tornano più volte in trasparenza nei discorsi: l’interruzione di percorsi di sfiducia, il recupero di autostima, la progettualità. Alla base della fiducia c’è la creazione di relazioni umane che danno senso alle esperienze a cui si partecipa. Riuscire a motivare i ragazzi è il principale fattore di successo. Probabilmente la motivazione scatta quando si comincia a scoprire se stessi, le proprie capacitàsu cui contare, attuali e potenziali, interessi ignoti prima, la possibilità di raggiungere un prodotto finito, visibile, qualcosa da offrire agli altri, fosse anche solo una pizza! Questo permette di non negare più le proprie aspirazioni e di immaginarsi in progetti di una vita ‘altra’.
Alcuni ragazzi, una volta usciti dal carcere, tornano per fare l’esame e prendere il titolo di studio.
Una ragazza rom che ha due figli (di 4 e 3 anni) a Casal del Marmo ha ottenuto con l’art. 21 un contratto di lavoro di sei mesi fuori dall’Istituto, va a casa con i permessi, avrà le misure alternative.
Un ragazzo ha partecipato a un concorso letterario e ora è uno scrittore, scrive sceneggiature.
Una ragazza rom, che è ora a Casal del Marmo e ha un bambino, vuole continuare la scuola perché vuole essere più capace di trasmettere a suo figlio l’istruzione e l’esempio.
Sulla messa alla prova c’è un esito positivo di oltre l’80%, sia perché c’è una selezione dei casi, sia perché c’è un lavoro enorme a sostegno.
Circa sei ragazzi hanno fatto uno stage di un mese in un ristorante della catena ‘Rossopomodoro’, alcuni hanno trovato lavoro.
Avere frequentato la scuola ha una ricaduta positiva sulla recidiva.
La ragazza che riesce a svincolarsi dalla comunità è spesso senza figli o non sposata. Una ragazza aveva accettato di essere seguita dai servizi sociali, è stata assunta da un ristoratore con contratto di formazione.
Un ragazzo viveva in uncampo, arrivava a volte con un furto di vestiti nella borsa, era scoraggiato, guadagnava molto meno dei suoi amici. Però ha finito la messa alla prova e non è più tornato a delinquere, la famiglia gli ha ‘comprato’ una ragazza e andrà in Germania. Lui ha avuto una mamma che si è inserita in percorsi rieducativi, aveva fatto il corso di mediatrice culturale. Non aveva potuto lavorare per motivi di salute ma aveva individuato nella scuola una possibilità di integrazione e aveva fatto arrivare tutti e tre i figli al diploma di terza media.
A volte le ragazze non vogliono rientrare nel campo. Chi regge al ricatto affettivo fa la parrucchiera o lavora al supermercato o in un albergo o si fidanza con un italiano. Non è facile una scelta così, ti tagli i ponti con tutti. Magari la ragazza torna nel campo, ma quando diventerà madre dopo avere fatto il percorso educativo proporrà un modello diverso ai figli.
A volte qualche ragazzo chiama dall’Istituto penale per adulti e ci dice che quello che non era riuscito a cogliere a suo tempo lo ha colto dopo. Forse si bruciano occasioni perché vengono proposte troppo presto, invece devi lavorare sulla motivazione.
Il mio lavoro consiste nel mettere semi. Ci sono ragazzine che sono riuscite a prendere la licenza di scuola media, hanno sperimentato di avere capacità, penso che vorranno una formazione per i loro figli. Si tratta di inserire nella loro vita quotidiana piccoli frammenti che possano produrre un cambiamento, far scoprire i loro bisogni, le loro potenzialità.
Non sono moltissimi i ragazzi che frequentano la biblioteca, ma quelli che hanno scoperto la lettura la utilizzano regolarmente.
Ci sono molte ragazze che iniziano il percorso scolastico con un livello pre-A1 (praticamente da analfabeti) e terminano con A1 o A2, che corrisponde al termine della scuola elementare. Quest’anno (2017) 8 maschi e 9 femmine hanno raggiunto il livello A1 e 8 maschi e 8 femmine il livello A2.
Molti ragazzi continuano la scuola, una volta usciti. Le scuole esterne chiedono la certificazione dei crediti. 8-9 quest’anno hanno preso la licenza media con ottimi risultati.
Lo stato emotivo in carcere è così precario e allo stesso tempo così centrale per il successo di ogni percorso educativo.
È importante il rapporto di fiducia, creare la relazione è il primo punto.
Tutto si appoggia sul rapporto che si stabilisce, principalmente sulla fiducia che ci si guadagna. I ragazzi all’inizio ti mettono alla prova, ti sfidano. Le ragazze, se si sentono osservate come animali rari, si contrappongono apertamente all’insegnante. Alcune insegnanti sono andate via dopo una prima esperienza. Io non chiedo mai niente e poi sono loro che se vogliono, quando vogliono vengono e ti parlano di loro. Ti raccontano tutto.
I successi non sono tanto nel conseguimento del titolo di terza media, quanto nel raggiungimento della percezione di essere stati bravi. È una botta di autostima.
Elenco delle persone intervistate, che ringraziamo vivamente per la disponibilità e il tempo dedicato:
Donatella Caponetti – Dipartimento per la Giustizia Minorile
Liana Giambartolomei – direttrice Ipm Casal Del Marmo
Roberta Rossolini, Antonio Bortone – educatori Cpa
Francesca Zizza – operatrice servizi sociali
Elisabetta Ferrari – educatrice Ipm Casal del Marmo
Adalgisa Maurizio – dirigente Centro Provinciale Istruzione Adulti (Cpia3)
Cristina Pernice – docente di matematica e scienze per scuola secondaria inferiore Ipm Casal del Marmo
Angela Patea – docente di scuola primaria Ipm Casal del Marmo
Massimo Panicali – ex-docente di matematica e scienze per la scuola secondaria inferiore Ipm Casal del Marmo
Elisabetta Falchetti –European Centre for Cultural Organization and Management (Eccom)
Donatella Caponetti – Dipartimento per la Giustizia Minorile
Liana Giambartolomei – direttrice Ipm Casal Del Marmo
Roberta Rossolini, Antonio Bortone – educatori Cpa
Francesca Zizza – operatrice servizi sociali
Elisabetta Ferrari – educatrice Ipm Casal del Marmo
Adalgisa Maurizio – dirigente Centro Provinciale Istruzione Adulti (Cpia3)
Cristina Pernice – docente di matematica e scienze per scuola secondaria inferiore Ipm Casal del Marmo
Angela Patea – docente di scuola primaria Ipm Casal del Marmo
Massimo Panicali – ex-docente di matematica e scienze per la scuola secondaria inferiore Ipm Casal del Marmo
Elisabetta Falchetti –European Centre for Cultural Organization and Management (Eccom)
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