“Punire per educare”. È illusorio, nonché socialmente dannoso, inseguire gli obiettivi ricompresi in questo slogan tardo-ottocentesco, oggi tanto di moda nelle carceri e finanche nelle scuole. Uno slogan che è diventata politica attiva e che fa parte di una sotto-cultura che semplifica i processi culturali, sociali e psicologici fino a ridurli, in modo manicheo, a ostacoli a quella che è considerata una benemerita reazione disciplinare o punitiva a seconda dei contesti. La giustizia penale minorile non meritava le involuzioni normative presenti nel cosiddetto Decreto Legge Caivano che, come è spiegato in questo rapporto, ci riporta qualche decennio indietro nella storia giuridica del nostro Paese. A partire almeno dal 1988, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale minorile, l’Italia aveva scelto un’altra via, quella che potremmo descrivere attraverso un’inversione semantica dello slogan indicato in apertura di questo commento, ossia “educare per punire il meno possibile o addirittura per non punire affatto”.
La società degli adulti deve decidere che fare dei propri ragazzi, a partire da quelli più faticosi, disagiati, riottosi alle regole. La punizione carceraria crea dolore, stigma, fratture sociali insanabili. È negazione di futuro attraverso l’inflizione di sofferenze nel presente. Incarcerare un ragazzo o una ragazza è una delle scelte più gravi che si possa fare: significa inchiodarlo per sempre a un momento o a più momenti della sua giovane vita. Non può che essere un’opzione del tutto eccezionale. Invece le nuove norme hanno inteso rompere con una bella storia italiana, che era quella della residualizzazione della risposta detentiva nei confronti dei minori. La fiction “Mare fuori” non è riuscita, nonostante le buone intenzioni, a costruire una coscienza politica diversa. È prevalsa l’onda securitaria, la marea disciplinare che sta investendo l’intera nostra debole società. Chi sbaglia paga, anche se ha quattrodici, quindici, sedici, diciassette anni. È questo il mantra. La responsabilità e la maturità sono invece obiettivi che richiedono l’immensa fatica del dialogo, dell’ascolto infinito.
Per lunghi decenni l’Italia carceraria non è stata afflitta da emergenze date dalla iper-incarcerazione di ragazzi. La media delle loro presenze annue non è mai stata preoccupante, tant’è che raramente si sono superate le cinquecento unità nei diciassette Istituti Penali per Minorenni. All’estero ci guardavano come modello da seguire, al pari della nostra politica abolizionista sui manicomi. Invece è tornata di moda dalle parti del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’Istruzione l’idea semplificata per cui esisterebbe una pedagogia del carcere, della punizione esemplare. Come se non ci fossero stati un secolo di studi pedagogici e sociologici in direzione opposta. Nel frattempo il Ministero dell’Istruzione si è arricchito fin dal nome del riferimento al merito. È secondo quest’ultimo che i ragazzi vanno dunque classificati. Una concezione che dalla scuola arriva alla giustizia: chi commette un reato ha demeritato al punto da ‘meritarsi’ la punizione del carcere. Questa è la filosofia che permea il dibattito politico e parlamentare più recente. E lo si è visto in occasione dei fatti di Caivano, che sull’onda dell’emotività hanno originato nuove norme repressive. In questo modo si rinuncia alla complessità educativa, che invece associa la parola responsabilità non alla cattiva retorica della punizione ma a quella faticosa della cura, della consapevolezza, dello sguardo critico. Il carcere, anche quello meno truce e violento, annichilisce ogni forma di coscienza olistica. Non è in carcere che l’io si potrà mai rendere conto di essere parte di un insieme articolato.
Avremmo voluto che si aprisse un dibattito fecondo intorno alla nostra proposta di un codice penale rivolto ai soli minori, con sanzioni differenziate rispetto a quelle degli adulti e modellate sui loro bisogni di crescita e maturazione. Un codice che non punisca le ragazze e i ragazzi per gli stessi fatti, con le stesse sanzioni e con la stessa intensità prevista per i maggiorenni. Invece la nostra proposta è rimasta confinata ai luoghi del sapere, senza interessare quelli delle decisioni politiche.
Antigone continuerà a proporre un modello di giustizia penale minorile a forma e dimensione di adolescente, confezionato su sua misura senza che mutui la logica perdente della giustizia penale degli adulti.
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