Dalla metà del marzo 2017, Gemma Tuccillo è alla guida del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. Pochi giorni dopo, il 10 di aprile, era già con noi al convegno organizzato da Antigone dal titolo “Che fine hanno fatto gli Stati Generali? Carceri e misure alternative: cosa si è fatto, cosa non si è fatto, cosa si poteva fare”. E in quell’occasione ha raccontato il suo modello di giustizia minorile e quel che si aspetta dalla prossima, attesa riforma. Abbiamo voluto parlare con lei per andare più a fondo nel comune ragionamento.
Gemma Tuccilo, Antigone ha una lunga tradizione di visite penitenziarie, attraverso il suo Osservatorio sulle condizioni di detenzione in Italia. Anche di recente, abbiamo visitato molti Istituti Penali per Minorenni. Da un lato, abbiamo visto un modello detentivo che cerca di essere diverso da quello degli adulti e di concentrarsi sulle giuste specificità da dedicare a dei ragazzi; dall’altro, tuttavia, ci siamo accorti che non sempre si riesce a farlo allo stesso modo. So che le faccio una domanda dalla portata vastissima ma, se lei dovesse dire come deve essere l’esecuzione della pena detentiva per un minore, come la descriverebbe?
La prima considerazione è nella direzione che la pena detentiva sempre più deve essere extrema ratio nella esecuzione penale minorile, dunque soluzione riservata alle situazioni in cui essa è la sola risorsa possibile, idonea a coniugare le esigenze sanzionatorie e quelle di sicurezza sociale, pur nel pieno e anzi ancor più ampio rispetto delle esigenze educative e formative del giovane condannato. Dunque la vita detentiva, nelle strutture per minori di età deve prevedere la maggiore aderenza possibile alla vita esterna, garantire la prosecuzione dei percorsi scolastici e formativi, e fornirne di nuovi ed aderenti alle inclinazioni del singolo ragazzo, oltre che assicurare il mantenimento delle relazioni affettive significative ed un costante sostegno che rafforzi l’autostima e stimoli senso di responsabilità. La struttura detentiva deve offrire opportunità concrete e contrastare ozio ed isolamento, condizioni che peraltro possono indurre tentazioni di gesti autolesivi ed ingenerare spunti di ribellione. Personalmente ritengo che la partecipazione alle attività e più complessivamente alla vita di Istituto, rientri tra gli indicatori di ‘recupero’ e costituisca un importante segnale di positiva risposta al trattamento. E gli interventi devono essere il più possibile flessibili e modulati in modo adeguato rispetto ai consistenti cambiamenti che negli ultimi anni hanno caratterizzato l’utenza che accede agli Ipm. In un sistema sempre più strutturato su soluzioni diverse dalla detenzione è evidente che chi accede in istituto presenta, di regola, caratteristiche personali, familiari e sociali di particolare difficoltà spesso collegate alla particolare gravità dei fatti commessi. L’appartenenza al crimine organizzato, la presenza di patologie psichiatriche spesso associate a dipendenze, la provenienza da altri Paesi e la mancanza di riferimenti familiari ed affettivi descrivono solo alcune delle situazioni più frequenti che riguardano i minorenni che accedono agli Istituti penali. È evidente come in situazioni di questo tipo i modelli di intervento devono essere profondamente diversi, non possono esaurirsi nell’immissione nel sistema di opportunità di lavoro e di istruzione (che ovviamente restano indispensabili) ed è necessario farsi carico della complessità del vissuto di ciascuno intervenendo in modo multidisciplinare e sempre più individualizzato.
Noi ci occupiamo molto anche di comunicazione, nel tentativo di spostare l’asse dell’opinione pubblica verso standard culturali alti. A suo parere, come si può spiegare alla gente che è giusto che il carcere per i minori sia residuale o che sia addirittura da superare? E come giustificare un modello di pena improntato esclusivamente al pronto recupero sociale dei ragazzi?
L’obiettivo primario è il superamento dell’idea che repressione e isolamento siano sinonimo di sicurezza. La Costituzione parla di pene e non di pena. Dunque la misura alternativa, o più complessivamente la misura penale di comunità, non è un premio ma un modo alternativo di eseguire la pena e con pari dignità di sanzione che, se adeguatamente applicata, attraverso programmi trattamentali individualizzati e concreti, produce sicuri risultati in termini di sicurezza sociale e diminuzione del rischio recidiva. L’isolamento non consente una riflessione dinamica sulle condotte devianti poste in essere, non favorisce il processo di responsabilizzazione, non aiuta a maturare e a definire il senso di appartenenza alla collettività. Spesso anzi incattivisce, costruisce false identità e rafforza nel condannato il convincimento che la condotta deviante e ancor più spesso atteggiamenti di prevaricazione e sopraffazione sono gli unici in grado di conferire spessore e visibilità. Parimenti solo la presa d’atto diretta che il giovane che ha ‘sbagliato’ operosamente si impegna per porre rimedio all’errore e per costruire percorsi finalizzati all’acquisizione di regole improntate al rispetto delle altrui libertà per poter vedere riconosciuti i propri diritti, può indurre la collettività ad accogliere e non allontanare, a collaborare ai percorsi di inclusione. È necessario, naturalmente, implementare le risorse e rafforzare gli uffici con personale adeguatamente formato e motivato, anche per poter affrontare l’auspicato incremento di misure alternative alla detenzione all’indomani dei decreti attuativi della delega che necessita di un intenso lavoro anche in sinergia con le strutture detentive. Ed è altrettanto indispensabile coinvolgere la collettività, valorizzando l’apporto delle imprese che offrano opzioni lavorative non limitate al segmento di esecuzione pena, e quello preziosissimo del volontariato, anche relativo al servizio civile, con progetti da realizzarsi su tutto il territorio nazionale, come auspicato con la firma dell’Accordo con la Conferenza Nazionale del Volontariato. Fondamentale rilievo viene conferito, e sempre più si intende conferire, al coinvolgimento attivo del nucleo familiare di appartenenza, la cui consapevole adesione ai progetti è elemento imprescindibile per la buona riuscita degli stessi. Va sottolineato che con riferimento ai minori autori di reato vi è riscontro di una sempre più ampia partecipazione del mondo esterno al percorso di inclusione.
Visitando Istituti in giro per l’Italia – così come si legge anche nelle statistiche – abbiamo potuto constatare che i minorenni sotto i 18 anni in carcere sono pochi. Questo è senz’altro rassicurante. Però abbiamo anche constatato come molti operatori siano contrari alla riforma che ha allargato fino ai venticinquenni la possibilità di permanere in Ipm. Qual è la sua opinione al proposito? E qual era il senso di quella riforma?
Il tema dei cosiddetti giovani adulti è delicato e controverso, e mi sembra doveroso precisare che non risponde del tutto al vero la più generale affermazione che i disordini all’interno degli Ipm siano determinati dagli ultradiciottenni. Del resto, di fronte a comportamenti inadeguati e che costituiscono ostacolo allo svolgimento regolare della vita detentiva, è ben possibile, ed accade in concreto, richiedere il trasferimento del singolo detenuto alla struttura per adulti. Auspico però una riforma della normativa – e l’Ordinamento Penitenziario minorile potrebbe essere la occasione propizia –nel senso di evitare l’ingresso in Ipm a coloro che hanno già scontato o stanno scontando una pena detentiva in struttura per adulti per reati commessi nella maggiore età, e dunque dopo il reato commesso da minori e la cui esecuzione interviene però successivamente. Piuttosto mi sembrerebbe molto importante condividere e prevedere, e ci stiamo impegnando in tal senso con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, percorsi trattamentali omogenei per tutti i giovani adulti, anche quelli che hanno commesso il primo reato dopo il compimento dei diciotto anni e che dunque sono ristetti in strutture per adulti.
A proposito di riforme, come da lei menzionato siamo oggi a un momento aspettato da tempo. A breve usciranno i decreti attuativi della delega parlamentare al Governo per riformare, tra le altre cose, anche l’Ordinamento Penitenziario minorile. Sono tanti anni che si pensava a un nuovo Ordinamento Penitenziario specifico per i minori. Quali sono le cose più rilevanti che cambieranno? In che modo l’Amministrazione si organizzerà per darvi attuazione?
Credo che le nuove regole per l’esecuzione penale per i minorenni debbano allinearsi allo spirito ed ai principi che già governano da molti anni il processo minorile e quindi il senso complessivo dell’intervento penale nei confronti dei giovani minori di età. In questa prospettiva è evidente che il primo intervento deve riguardare, come del resto esplicitamente imposto dalla legge delega, l’eliminazione di ogni preclusione assoluta ed automatismo che limiti l’accesso a misure diverse dal carcere o a istituti di favore. Mantenere per i minorenni limiti che impediscono una valutazione del giudice in ragione del tipo di reato commesso o per entità della pena inflitta è in contrasto con una concezione complessiva del sistema penale minorile costruita sull’analisi della personalità e sulla individuazione delle soluzioni migliori per favorirne lo sviluppo. Allo stesso modo è evidente la necessità di adeguare gli strumenti ordinamentali pensati per gli adulti alle esigenze dei minorenni. Penso soprattutto alle esigenze di istruzione e formazione professionale, alla tutela dei legami affettivi e familiari, ai collegamenti con la comunità esterna e al sistema disciplinare.
Non pensa sia il caso di pensare anche a un Regolamento di esecuzione per i minori?
Molte disposizioni contenute nell’Ordinamento Penitenziario e nel Regolamento di esecuzione prevedono diritti e disciplinano correttamente procedure che possono tranquillamente essere applicabili ai minorenni. Si tratta, anche per quanto attiene al Regolamento, di individuare le parti per le quali è necessario un adeguamento (penso ad esempio alla disciplina delle comunicazioni o al disciplinare) che però ben potrebbe essere inserito in un solo articolato normativo che introduce una disciplina speciale secondo la tecnica normativa già utilizzata con il Dpr 448 che ha introdotto il processo minorile.
Ci sono tante virtuosità a livello territoriale, tante iniziative creative nelle quali ci siamo imbattuti. Solo per fare un esempio, che all’Ipm di Palermo il teatro sia a disposizione anche della cittadinanza esterna è un modo per rompere la chiusura del carcere. Potrei moltiplicare gli esempi. Ci può raccontare quelle su cui a suo parere si può costruire un modello di buone prassi esportabile e applicabile anche altrove?
Premesso che massima attenzione è doverosamente rivolta al momento della istruzione e della formazione e che pertanto in tutti gli Ipm sono attivati corsi di alfabetizzazione per gli stranieri, scuola primaria e scuola secondaria, oltre che corsi di formazione professionale che variano da Istituto a Istituto anche in base alle diverse offerte dei territori su cui essi insistono, le iniziative creative e virtuose sono tante, ed altrettanto numerose quelle che mirano a creare un coinvolgimento diretto della cittadinanza attiva. Ogni prassi virtuosa viene esportata nelle varie realtà territoriali al fine di valutare la possibilità di replica. Per restare al riferimento alla attività teatrale, ad esempio, anche all’Ipm di Milano il teatro è aperto all’esterno ed in ogni caso le attività teatrali sono diffusissime e numerosi i Protocolli siglati, anche a livello centrale, dal Dipartimento. L’ultimo il 17 novembre scorso con il Coordinamento nazionale Teatro in carcere e l’Università Roma 3, proprio per intensificare questa attività in tutte le strutture minorili. Ugualmente può dirsi per le attività sportive (particolarmente interessante il progetto Vela Solidale), che sono organizzate in modo che i giovani possano interagire con l’esterno e confrontarsi con un sistema di regole, di sana competitività e di logica di gruppo.
Se dovessimo individuare un elemento di critica a quanto riscontrato durante le nostre visite, ci potremmo riferire alla gestione dei ragazzi difficili attraverso i trasferimenti. Lei cosa ne pensa?
Trasferire un minore di età per motivi legati al suo comportamento deve essere sempre una soluzione estrema e che deve intervenire all’esito di adeguati interventi trattamentali. Il trasferimento rappresenta indubbiamente, in qualche misura, una fragilità del sistema, ma esso diviene determinazione necessaria a fronte di provocazioni e condotte che impediscono il regolare svolgimento delle attività ed il sereno lavoro degli operatori, creano disordini e situazioni di soggezione negli altri giovani detenuti. Talvolta il trasferimento si rende necessario sia per la tutela di questi ultimi che nell’interesse e garanzia della sicurezza dello stesso trasferito.