L’osservazione diretta è funzionale a conoscere, a far conoscere, a
trasformare l’oggetto osservato. Negli ultimi mesi abbiamo visitato un
numero significativo di Istituti Penali per Minorenni. Abbiamo osservato
i luoghi, la vita, il linguaggio, i ragazzi reclusi, il personale che a
vario titolo lavora in carcere. Individuare una tendenza comune è
possibile, seppur non sia facile e presenti un rischio di valutazioni
approssimative. Un carcere minorile non è un carcere per adulti. Chi conosce l’universo penitenziario delle persone ‘grandi’ ben sa che entrando in un Ipm si troverà di fronte un mondo diverso:
dalle procedure d’ingresso per i visitatori alla storia professionale
degli operatori, dall’iconografia carceraria alla sensibilità
istituzionale, dai bisogni pedagogici e di salute ai diritti, dalle
relazioni tra detenuti a quelle con lo staff, dai controlli alle
attività consentite.
Nella tradizione italiana della giustizia minorile la carcerazione è
fortunatamente residuale. I numeri dei ragazzi detenuti sono
estremamente bassi. I minorenni sono meno di duecento. I giovani adulti,
ossia con età compresa tra i 18 e i 25 anni, meno di trecento. È un
successo della giustizia italiana di cui bisognerebbe vantarsi nella
comunità internazionale.
Un ragazzo è in primo luogo un ragazzo. I bassi numeri pongono una sfida
che deve essere affrontata partendo da una doppia consapevolezza, esito
anche della nostra attività di osservazione. Innanzitutto, la
consapevolezza di come il numero ragionevole di ragazzi e ragazze
reclusi favorisca la loro effettiva e non formale presa in carico. Il
flusso dei giovani che transitano negli Ipm è ovunque contenuto. La
fotografia di un istante in un carcere minorile siciliano o in quello di
Bari o di Catanzaro ci racconta di un Istituto con un numero di ospiti
più o meno paragonabile a quello di una classe affollata in una scuola
metropolitana. Numeri così bassi consentono – e in alcuni Ipm si
ha di ciò riscontro – progettualità innovative e un’attenzione
educativa individuale che non ha paragoni nella burocratizzata
vita carceraria degli adulti, afflitta da numeri che rendono i detenuti
invisibili agli operatori. Così accade che a Palermo, a Bari, a Torino o
a Nisida (Napoli) il direttore conosca uno a uno i ragazzi, come
potrebbe accadere in una casa-famiglia. O che la presenza di un
mediatore culturale capace e motivato cambi visibilmente, come accade
nell’Ipm di Catania, la qualità della vita di alcuni ragazzi stranieri,
le cui storie escono dall’oblio. O che i destini individuali dei ragazzi
siano effettivamente presi in considerazione empatica, sapendo
distinguere atteggiamenti superficiali riottosi da sentimenti profondi
di insicurezza individuale derivanti da vite difficili o da uno stato di
abbandono familiare e sociale.
La seconda consapevolezza dalla quale si deve partire riguarda il fatto
che la giustizia penale minorile, consentendo la sperimentazione di
percorsi e pene alternative a quella carceraria, deve inevitabilmente
interrogarci sulla composizione di quel nocciolo detentivo che finisce per ritrovarsi negli Ipm.
Non è facile categorizzarlo, ma in maniera un po’ sommaria potremmo
dire che i ragazzi detenuti appartengono a quattro ampi insiemi: 1)
coloro che hanno commesso reati gravissimi contro la persona o di
particolare rilevanza sociale; 2) ragazzi immigrati privi di alcun
riferimento personale significativo all’esterno; 3) detenuti
pluri-recidivi con stili di vita non legali; 4) detenuti affetti da
atteggiamenti oppositivi, che rendono complessa la loro permanenza in
strutture più aperte. Se questa è la composizione socio-penale degli
Ipm, è evidente come gli operatori dovranno quotidianamente affrontare
ragazzi con storie di vita molto complicate che richiedono un’attenzione
psicologica e pedagogica particolarmente elevata. Vanno dunque evitate semplificazioni trattamentali,
come quelle proprie ad esempio di taluni sindacati autonomi di Polizia
Penitenziaria che di fronte ad aggressività verbali o fisiche, ad
atteggiamenti prevaricatori o irrispettosi delle regole comuni, chiedono
la chiusura di ogni spazio e l’applicazione ai ragazzi della stessa
legge degli adulti. La rissa, l’aggressione, il diverbio che
degenera possono essere quotidianità. E proprio per questo vanno
gestiti con le armi della maturità e della sapienza educativa degli
adulti piuttosto che con le restrizioni e l’isolamento;
quest’ultimo purtroppo applicato, per fatti più o meno gravi, in quasi
tutti i luoghi da noi visitati, nonostante possa produrre su un giovane
effetti psico-sociali devastanti.
Bisogna inoltre considerare come l’utenza sia oggi diversa rispetto ai tempi in cui è stato approvato il codice di procedura penale per minorenni,
nell’ormai lontano 1988. Molti ragazzi arrivano dal Maghreb,
dall’Africa sub-sahariana, dal Caucaso, dall’Albania. Hanno
progettualità diverse da quelle dei ragazzi italiani. Talenti diversi.
Storie complesse, a volte tragiche. Nell’unico Ipm interamente
femminile, a Pontremoli, le ragazze straniere sono la stragrande
maggioranza. Ciascuna ha una propria biografia capace di spiegare la
condizione in cui si trova.
In Sicilia sono passati negli ultimi anni tanti ragazzi accusati di un crimine orribile: il traffico di esseri umani.
Nel solo Ipm di Catania, l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina è stata contestata a 7 ragazzi nel 2012, a 9 nel 2013, a 15
nel 2014, a 9 nel 2015, a 12 nel 2016 e ancora a nessuno in questo 2017.
Girando per gli Istituti e parlando con gli operatori, abbiamo potuto
farci un’idea di chi sono realmente questi giovani. Sono minori scafisti o sono due volte vittime?
Quasi sempre sono ragazzini che scappano dalla disperazione, minori non
accompagnati vittime dei veri scafisti, cui questi impongono di tenere
il timone sull’imbarcazione o di distribuire l’acqua ai compagni del
tragico viaggio. Arrivati in Italia, sarà sufficiente proprio la
testimonianza di qualcuno dei compagni per far scattare l’accusa di
essere trafficanti di uomini. Gli stessi direttori ci hanno parlato di
loro come di ragazzi sperduti che rischiano ingiustamente anni e anni di
galera. La tragedia della loro esistenza non ha fine. Nell’Ipm della
Sardegna, investita di recente da alcuni sbarchi, abbiamo incontrato un
ragazzo senegalese che rispondeva a questa triste storia. Aveva uno
sguardo smarrito, buio. Sedici anni e nessuna possibilità di comunicare
all’esterno. Parlava solo un dialetto del Senegal sconosciuto a chiunque
avesse incontrato. Non una parola di italiano, di inglese, di francese.
Non capiva nulla di quanto gli stava accadendo, delle accuse mosse, del
perché l’Europa, che tanto sperava di raggiungere, invece che salvarlo
dalla propria vita lo sbattesse adesso in galera. La difesa tecnica,
quella dell’articolo 24 della Costituzione, è per questi ragazzi
qualcosa di davvero molto astratto.
I numeri di questo doloroso fenomeno, almeno a Catania, sembrano essere in netto calo. Ciò sarebbe dovuto a una circolare che pare sia stata emanata dai vertici della Procura catanese e
nella quale si invitava a non configurare con troppa facilità il reato
di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, consapevoli del fatto
che ben di rado i ragazzi vi rispondono realmente. Non siamo riusciti a
recuperare il testo di tale circolare, seppur la sua esistenza ci sia
stata segnalata da operatori delle carceri siciliane.
In tutti gli Istituti si prova a evitare che minori e giovani adulti facciano vita comune.
In alcuni casi, come a Torino, la divisione è rigorosa. Secondo il
racconto degli operatori, i più grandi sono più facili da gestire in
quanto esperti di carcere. ‘Sanno farsi la galera’, mentre i primi
sarebbero un concentrato di rabbia, ormoni e vite complicate. Il
legislatore ha spostato verso le carceri minorili i ragazzi fino ai 25
anni. Può essere rischioso per i più piccoli, come denunciano le paure
dello staff, ma crediamo possa costituire nei tempi lunghi una decisione
assai virtuosa. Il riferimento agli ormoni solleva la questione della sessualità negata.
Un tema tabù, che nessuno affronta se non attraverso episodici progetti
di educazione sessuale. Sarebbe invece utile verificare se una
sessualità praticata non andrebbe a ridurre il tasso di aggressività
verso se stessi e verso gli altri. Molti di questi ragazzi e ragazze
sono d’altronde già genitori. Lo sono diventati davvero tanto presto.
Il primo sguardo per chi visita un Ipm è rivolto ai ragazzi e al
personale che lavora in Istituto. Può capitare di non distinguere gli
uni dagli altri. I poliziotti, ad eccezione del comandante di reparto,
non indossano la divisa. La presenza di giovani agenti in
borghese costituisce un messaggio di vicinanza umana e di non
stigmatizzazione carceraria che ha effetti benefici ovunque.
Per chi ha alle spalle storie di autentica criminalità, come potrebbe
accadere per taluni ragazzi autoctoni ristretti al Fornelli di Bari, a
Catanzaro, a Nisida o nei quattro Ipm siciliani, va rotto il circolo
vizioso del rapporto con l’istituzione. Essa deve presentarsi dolce,
mite, accogliente, ma anche ferma e moralmente irreprensibile. Avere di
fronte un giovane poliziotto senza divisa che ti osserva, ti aiuta, ti
controlla, ti limita e ti sostiene significa incontrare qualcuno di non
molto lontano da te. Sono l’autorevolezza, la determinazione e la
coerenza a contare nel rapporto con persone in via di formazione. Ben
più della divisa.
Per funzionare al meglio, la giustizia minorile deve costituire un attore tra altri. Non può essere l’unico. La cooperazione, l’associazionismo, la scuola, gli Enti Locali, la Regione sono necessari.
Quando in tutte le carceri minorili siciliane da noi visitate ci viene
raccontato come la formazione professionale, decisiva per questo tipo di
utenza, sia ferma da molto tempo, si comprende come gli operatori
penitenziari siano lasciati soli. Tristemente soli. Viene così ridotta
fortemente la possibilità per i ragazzi di concludere l’obbligo
scolastico previsto per legge. Quando a Cagliari accade che l’Ipm di
Quartucciu, la cui origine negli anni ’80 era quella di fungere da
carcere di massima sicurezza, non sia raggiungibile dai bus cittadini,
si comprende come quella comunità venga destinata all’isolamento
sociale.
Un attore decisivo per il destino dei ragazzi reclusi è il variegato
mondo del terzo settore, dell’associazionismo e della cooperazione
sociale. La sua creatività può fare tantissimo. All’Ipm Malaspina di Palermo, dentro il recinto del carcere, vi è il laboratorio “Cotti in fragranza” .
Si tratta di un laboratorio per la preparazione di prodotti da forno
gestito dalla cooperativa sociale Rigenerazioni Onlus, cui lavorano
anche ragazzi in esecuzione pena. I biscotti che escono da qui sono
tutti di altissima qualità, prodotti senza l’utilizzo di semilavorati e
partendo direttamente da materie prima biologiche e a km zero. I
frollini allo zenzero si chiamano “Parrapicca”, un termine siciliano per
indicare qualcosa che ti para la bocca per farti stare zitto.
All’apertura del forno, in pochi credevano che avrebbe avuto un futuro.
Quando dopo il primo esercizio si constatò che tutte le scadenze erano
state rispettate e che la sfida imprenditoriale era stata vinta, uno dei
ragazzi affermò soddisfatto che adesso tutti si dovevano “accattare u
parrapicca”. Da qui il nome dei buonissimi biscotti che ci sono stati
offerti durante la nostra visita all’Istituto. In “Cotti in fragranza”
convivono strategie imprenditoriali efficaci e valori etici radicali.
Tutti contano per uno, i ragazzi hanno voce in capitolo nelle decisioni
commerciali tanto quanto i membri della cooperativa. C’è un’autentica e
gratificante responsabilizzazione. Un progetto come questo, ben
coordinato, coraggioso, imprenditorialmente efficace e produttivo,
nonché sostenuto anche da altri soggetti privati (l’Opera Don Calabria,
l’Associazione Nazionale Magistrati e la Fondazione San Zeno), ha una
grande efficacia. Basterebbero quattro o cinque progetti di questa forza
per sperimentare la piena occupazione manuale e intellettuale
nell’Istituto. A Catania, per mesi un gruppo di detenuti si è recato
ogni giorno alle falde dell’Etna per curare una vigna. Un’esperienza che
ha segnato il loro tempo positivamente. Non puro intrattenimento, a
sentire loro, ma qualcosa di più vicino alla formazione sul campo. Fino a
quando qualcuno non ha deciso di rubare il raccolto, creando un senso
di spaesamento in molti dei ragazzi che non avevamo mai sperimentato
come ci si sentisse a essere le vittime di un reato. Se si va sul sito
dei Teatri di Bari, si legge come la ‘Sala Prove’ sia una sala teatrale nel carcere minorile,
luogo noto all’interno di un quartiere popolare e popoloso (Carrassi). È
un vero e proprio laboratorio teatrale dove si impara a fare teatro e
si ospitano spettacoli esterni. Dal 1997 sono stati ospitati venti
spettacoli, non sempre con detenuti. Nel carcere minorile di Bologna, in pieno centro, c’è invece il teatro del Pratello,
che ha prodotto spettacoli anche negli anni bui di quell’Istituto,
quando il personale era finito sotto inchiesta per abusi vari. A Pontremoli ogni anno c’è uno spettacolo al teatro comunale messo in scena da una compagnia mista
di detenute e attrici esterne. Ogni estate ci sono due premi letterari:
il Bancarella, ben noto, e il Bancarellino, dedicato ai ragazzi. Le
detenute fanno parte della giuria. Il premiato andrà a leggere il
proprio libro in Istituto. Torino, la città dei Santi Sociali, tenta di non dimenticarsi del Ferrante Aporti: qui c’è il laboratorio di cioccolateria,
legato a un grande marchio della tradizione dolciaria cittadina; c’è
Mario Tagliani, che da trent’anni fa il ‘maestro dentro’, come recita il
titolo del suo libro, e che il prossimo anno andrà in pensione; ci sono
i laboratori di grafica e scultura, con macchinari all’avanguardia. I ‘maestri’ sono irrinunciabili nella fase della crescita.
Un limite alle possibilità di organizzazione del tempo in carcere è dato
dal breve periodo di permanenza del ragazzo. Alcuni operatori giungono
ad affermare che una durata minima della pena dovrebbe venire stabilita,
affinché non risulti impossibile prendere i giovani seriamente in
carico. Il senso di una richiesta di questo tipo non dovrebbe essere
inteso in chiave pan-penalista o esageratamente correzionalista, bensì
nel senso dell’evitare permanenze brevi e dannose sostituendole con percorsi esterni.
Abbiamo incontrato non pochi ragazzi che provenivano da comunità dove
avevano commesso qualche infrazione alle regole di vita interna e da
dove stati condotti in carcere a trascorrervi quindici o trenta giorni.
Una punizione del tutto inutile. Il direttore o l’educatore non potrà
progettare per loro interventi scolastici, lavorativi, educativi degni
di questo nome. Si limiterà a controllarli dal punto di vista
comportamentale. L’Ipm si presenta così al ragazzo, anche
concettualmente, come vera e propria galera punitiva.
L’edilizia penitenziaria non aiuta purtroppo gli operatori. Quartucciu è un posto obiettivamente brutto, in tutto e per tutto somigliante a un brutto carcere per adulti. C’è chi cerca all’interno di migliorare quell’estetica che all’esterno appare come di una prigione. Così ad Acireale e a Catania i
detenuti hanno avuto l’opportunità di personalizzare le proprie celle.
Una di queste, interamente dedicata nello stile e nelle immagini a
Marylin Monroe, potrebbe oggi essere scambiata con una buona camera da
proporre per un bed and breakfast. In un’altra il bagno annesso,
interamente ristrutturato dai ragazzi che lo utilizzano, è paragonabile a
quello di un buon albergo nella pulizia, nelle rifiniture, nella scelta
del parquet. Serve davvero tutto questo? Sì, serve. Massimo Catalano,
indimenticabile personaggio della trasmissione di Renzo Arbore, avrebbe
potuto commentare che è meglio vivere in un posto bello che in un posto
brutto. E dunque serve. Tanto più quando parliamo di ragazzi che al
bello e al rispetto del bello non hanno avuto occasione di essere troppo
educati.
Pontremoli è un Istituto unicamente femminile. L’unico
in Europa, afferma il direttore. È isolato. La città più vicina, Parma, è
a un’ora di distanza. La struttura è degli anni ’20 ed è stata prima
una Casa Mandamentale e poi una Casa Circondariale femminile. La forma è
quella di un carcere a tutti gli effetti. Il direttore, che è un ex
assistente sociale e viene dall’area penale esterna, vorrebbe farne un
progetto sperimentale, de-carcerizzarlo, togliendo blindi e abbattendo
divisioni. Ci sono 16 posti e 17 donne, 4 o 5 per camera. Al 90% sono
straniere, quasi tutte rom, in carcere per reati contro il patrimonio.
C’è sempre almeno un bambino in Istituto. Molte ragazze scoprono la
possibilità di autodeterminarsi proprio lì dentro, dice ancora il
direttore, lontano e al riparo dai maschi e dalle famiglie.
Il Ferrante Aporti è un pezzo di città, appartiene a
Torino e alla sua storia operaia, a pochi isolati dal Lingotto, primo
stabilimento fordista italiano, e da Mirafiori, dove ha trovato casa e
lavoro la grande migrazione interna degli anni del boom. Allora l’80%
dei ragazzi detenuti era figlio di quelle famiglie. La cinghia di
trasmissione tra povertà, classi differenziate e carcere minorile
lavorava a ritmo continuo. Ora i numeri sono rimasti gli stessi, ma
quell’80% è oggi costituito dai figli della grande migrazione
internazionale: Maghreb, Senegal, Caucaso. La direttrice li conosce a
uno a uno. Molto del peso dell’Istituto grava sulle sue spalle. Tanti
ragazzi arrivano qui anche per scappare dal clamore mediatico dei reati
che hanno commesso, trasferiti da mezza Italia. Le famiglie, quando ci
sono, restano però lontane e costruire ponti tra dentro e fuori è più
complicato. Al Ferrante continuano a provarci, ma per quanto avranno
ancora le forze?
Tra i palazzoni della periferia milanese e il capolinea della metro c’è il Beccaria.
A Milano lo chiamano così. Non carcere, non Istituto, né tanto meno
Ipm. Beccaria e basta, come il papà del garantismo che nacque e morì a
Milano. L’Istituto è un cantiere permanente (la fine dei lavori di
ristrutturazione è prorogata da troppi anni), con una direzione vacante e
con spiacevoli inchieste giudiziarie che coinvolgono personale di
polizia penitenziaria. L’osservatore di Antigone che si è recato in
visita, uscito dal carcere ci ha fatto questo racconto: “La domanda che
mi è subito sorta è stata: e i ragazzi? Dove sono? In altri Istituti
senti le loro voci, le risate e le urla arrabbiate. Li vedi. Ti parlano
di figli, di fidanzate, di calcio e di processi. Qui no. Eppure ci sono,
vedi le loro stanze nella nuova sezione che molto assomiglia ad un
carcere per adulti. Le aule dove studiano (quasi tutti) e lavorano (in
pochi). Ma loro non li incontri (quasi) mai”.
Il clima penitenziario è prodotto dalla vita che si conduce in carcere,
dall’organizzazione del tempo e dello spazio, ma anche dalle decisioni
del direttore e del comandante nonché dalla serenità dei rapporti con il
personale. Bisogna diffidare dei luoghi detentivi dove eccessivo è il silenzio.
A Bologna, a Nisida e a Palermo i detenuti intervistati si sono sentiti
liberi di parlare con noi. Lo sguardo degli operatori non era uno
sguardo asfissiante di controllo. Gli stessi operatori non sembravano
preoccupati nell’esprimere liberamente le proprie opinioni. Ciò sta a
testimoniare che il centro non opprime la periferia, che non si ha paura
delle permalosità del superiore gerarchico. Il clima appare così più
democratico.
Una pratica ancora ricorrente è purtroppo quella dei continui trasferimenti dei ragazzi ritenuti difficili. Troppo spesso essi vengono trattati come fossero pacchi. Magari pacchi bomba. Questo non dovrebbe mai accadere.
Le carceri minorili sono tendenzialmente più omogenee di quelle per gli
adulti. Anche se poi ciascuna, nel bene e nel male, ha le proprie
peculiarità, con aperture e chiusure variamente distribuite. Ciò si è
rivelato vero anche nella relazione con noi che intendevamo recarci in
visita. Alcune direzioni – di gran lunga la maggioranza – ci hanno accolto a braccia aperte.
Direttori e operatori sono stati entusiasti della nostra visita,
ricevendoci con calore, facilitandoci negli oneri burocratici, facendoci
trovare i ragazzi già a conoscenza del nostro lavoro e pronti a parlare
con noi della loro vita penitenziaria. Si vede che c’è desiderio del
contatto con l’esterno e che lo si legge come una ricchezza piuttosto
che come una minaccia. A Bologna il direttore è stato insieme a noi nel
guidarci per l’Istituto, lasciandoci soli con i ragazzi ogni volta che
per discrezione riteneva di farlo. A Nisida direttore e vicedirettore ci
hanno addirittura invitati a pranzo, facendoci provare la fantastica
pasta al ragù dello storico cuoco che cucina per i ragazzi. Negli
Istituti siciliani le direzioni si sono messe a nostra completa
disposizione per fornirci ogni informazione che potesse interessarci. A
Roma, invece, la disponibilità della direzione è stata ben più parziale,
al punto che non siamo riusciti a trovare un accordo per una visita
recente. A Milano, dopo lunghe trattative, siamo riusciti a entrare in
carcere, senza tuttavia che ci fosse possibile incontrare, né tantomeno
parlare, con i ragazzi.
Il sistema penitenziario minorile italiano è meno a macchia di leopardo
rispetto a quello degli adulti. Ha una sua identità pedagogica che si
respira sentendo le parole dei direttori, degli educatori e dei
poliziotti. Ma deve andare ancora oltre. Non deve farsi affascinare dai
metodi approssimativi del sistema degli adulti. Deve rinunciare del
tutto alle asprezze, all’isolamento punitivo. Deve riuscire a puntare su
due sole parole chiave: prevenzione ed educazione.
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