In questo capitolo cercheremo di riportare quanto da noi direttamente osservato, nella nostra veste di avvocati che si trovano a lavorare nel sistema della giustizia minorile, rispetto alle difficoltà peculiari che il minore straniero molto spesso deve affrontare, tanto al momento della fase processuale quanto durante l’esecuzione di una misura penale, se paragonate a quelle del minore italiano o del minore comunque maggiormente tutelato da un punto di vista sociale. Il nostro luogo di osservazione ci ha permesso di farci un’idea delle criticità del sistema nel rivolgersi ai ragazzi stranieri, nonché delle direzioni che si dovrebbero intraprendere e che cominciano a essere indicate da sperimentazioni virtuose.
L’obiettivo del procedimento penale minorile italiano è la tutela della realtà evolutiva del minorenne dall’impatto con l’esperienza giudiziaria, definita di per sé stessa dannosa, tanto da imporre la più rapida fuoriuscita del minore dal processo. Il sistema minorile italiano è caratterizzato dal minimo ricorso alla detenzione, da una giurisdizione ‘mite’ dove l’imputato minorenne non è trattato da adulto, ma posto al centro della vicenda processuale come soggetto vulnerabile da tutelare nel corso del procedimento e responsabilizzare rispetto alla condotta deviante. Le attenzioni per l’imputato minorenne non riguardano esclusivamente la fase terminale del processo minorile, con la previsione di misure alternative alla detenzione in Ipm, ma afferiscono anche la fase processuale, dalla messa alla prova (attraverso la quale si evita lo stress del procedimento penale, sospendendolo) alle specifiche salvaguardie previste sul piano procedurale (ad esempio, le cautele adottate per l’esame dell’imputato).
In questo contesto il ruolo dell’avvocato diviene di fondamentale importanza perché, di fatto, è grazie soprattutto al difensore che l’imputato minorenne ha la possibilità di comprendere l’indecifrabile vicenda processuale che sta vivendo.
Il difensore, spesso, diventa l’unica interfaccia tra il minore imputato e la realtà processuale: infatti anche se è vero che la normativa prescrive la attiva partecipazione del ragazzo alle varie fasi processuali e parimenti la responsabilità dell’Autorità Giudiziaria e dei Servizi Sociali del Ministero nel suo coinvolgimento effettivo e consapevole, di fatto quasi sempre tali autorità statuali sono vissute come nemiche o distanti dagli imputati minorenni.
Allorquando l’imputato minorenne da difendere è straniero le difficoltà nell’attuare la migliore difesa, o persino nel prestare un’assistenza difensiva adeguata, aumentano esponenzialmente. Ciò in quanto i minori stranieri imputati (comunitari e non comunitari) sono portatori di interessi particolari sia durante il processo (si pensi al cittadino alloglotta e alle questioni legate all’interpretazione ed alla traduzione) sia durante la vita detentiva (presso un Cpa, in comunità o in un Ipm) sia, soprattutto, per accedere a prescrizioni o misure diverse da quelle custodiali.
In primo luogo, le condizioni di vita dei minori stranieri, i contesti di provenienza degli stessi, sono diversi rispetto a quelli di minori italiani che entrano in contatto con la giustizia, soprattutto dal punto di vista delle relazioni con la famiglia e la comunità territoriale di riferimento. Ne consegue che gli interventi dell’apparato socio-giudiziario sono inevitabilmente più complessi. La cronica mancanza di mediatori culturali, la mancata formazione degli operatori dei servizi sociali e degli operatori di diritto su culture diverse da quella italiana o occidentale, comportano ulteriori discriminazioni per gli stranieri minorenni che entrano in contatto con il sistema penale.
Spesso, l’assenza di un’abitazione, di una famiglia e di una rete di riferimento stabile nel territorio, rendono difficoltosa l’elaborazione di un programma partecipato di inclusione o reinserimento sociale del minore. La difficile reperibilità dei ragazzi, ad esempio, dopo l’uscita dei Centri di Prima Accoglienza, causata dalla mancanza di domicilio legale e certificabile e dall’estrema mobilità degli stessi sul territorio, rende particolarmente complicato e gravoso il lavoro degli operatori e finanche degli avvocati.
Inoltre, per motivi economici spesso i minori stranieri non possono assicurarsi un difensore di fiducia e devono quindi ricorrere a difensori d’ufficio. Ancora, ostacoli formali e sostanziali (a partire dalla non collaborazione delle Ambasciate di riferimento) rendono difficoltoso l’accesso al gratuito patrocinio per i minorenni extra-Ue e ciò, nella prassi, influenza anche le scelte processuali della difesa, talvolta indotta ad optare per riti alternativi (ad es. il patteggiamento) convenienti più all’interesse del difensore di spogliarsi, nel più breve tempo possibile, del singolo caso (non redditizio) che al superiore interesse del minore.
In definitiva, nei confronti degli stranieri poveri, come avviene spesso anche per altri soggetti vulnerabili, l’istituzione giudicante e l’intero sistema della giustizia minorile mostrano un livello di attenzione minore rispetto a quello che viene garantito a chiunque, per status, condizioni economiche agiate e posizione sociale, abbia strumenti di tutela da attivare in caso di errori giudiziari o di palese violazione delle garanzie di difesa.
A parità di imputazione o di condanna, inoltre, la permanenza in Ipm degli stranieri è mediamente più lunga di quella degli italiani, sia in fase cautelare che dopo l’eventuale sentenza. Questa differenza viene ricondotta, come accennato, al fatto che spesso gli stranieri non hanno un domicilio legale e verificabile per poter usufruire degli arresti domiciliari o delle misure alternative alla detenzione. A ciò si aggiunge un approccio dei diversi attori della giustizia minorile che discrimina gli stranieri, perché tratta in modo eguale situazioni differenti: non tenendo conto delle particolarità relative alle condizioni di vita, all’identità etnica, alla cultura degli stranieri, si tende a dare a questi ultimi lo stesso tipo di risposta dato ai minori italiani. Ciò è dovuto al fatto che i servizi preposti non sono sempre capaci di adattare i progetti educativi alle caratteristiche degli utenti, ponendo in essere quello che in dottrina viene definito il paradosso dell’egualitarismo.
Invero, molte delle distorsioni che si sono appena viste permangono anche allorquando il minore straniero ha un contesto familiare di riferimento e ciò, principalmente, per incapacità delle istituzioni di interagire con nuclei familiari, a loro volta, vulnerabili.
Non di rado, i genitori dei minori stranieri che entrano in contatto con la giustizia penale sono privi del permesso di soggiorno. In tal caso è esacerbata la loro difficoltà e diffidenza a rapportarsi con le istituzioni e ancor più a presentarsi nei luoghi istituzionali o dove sia comunque presente una rappresentanza delle forze di polizia. È innegabile che finanche il genitore del minore condannato o imputato teme realmente – laddove dovesse presentarsi al Cpa o all’Ipm in visita al figlio o alla figlia, alle udienze, ai colloqui con il servizio sociale – di essere destinatario di controlli volti alla sua identificazione o addirittura di un provvedimento di espulsione. Tuttavia tale situazione determina una lacerazione nella relazione tra istituzione (autorità giudiziaria o servizio sociale) e famiglia essenziale nell’ambito del procedimento penale e con effetto negativo, a volte determinante, nella progettualità con il minore e nella sua fuoriuscita dal processo.
Da un lato la famiglia e il minore rimarranno diffidenti e non collaborativi con un servizio sociale che non riconoscono in grado di indirizzare interventi idonei a rispondere a paure e bisogni reali, dall’altro il servizio sociale continuerà a non progettare a sufficienza diverse modalità di confronto e di incontro con tali famiglie che ben potrebbero presentare le problematiche illustrate. Evidentemente, piuttosto che attendere i genitori e i minori negli uffici istituzionali, dove spesso l’identificazione tramite tesserini e documenti è condizione necessaria anche solo per l’ingresso, il servizio sociale dovrebbe sempre più spostarsi nei luoghi dei minori e delle loro famiglie.  Infatti, troppo di frequente, la sola circostanza di vivere, ad esempio, nei campi rom comporta la totale preclusione di qualsiasi contatto con il servizio sociale che non riesce ad incontrare le famiglie dei minori e neppure ad avere consapevolezza delle loro scelte educative e culturali, di modo da poter strutturare percorsi di inclusione effettivamente ancorati alla vita reale del minore.
In definitiva, tale incapacità di rimodellare il paradigma di relazione tra minore, servizio sociale e famiglia determina un pericoloso vuoto di tutela nell’identificazione di progetti e percorsi che permetterebbero al minore di essere sottoposto a misure cautelari o misure alternative diverse da quelle custodiali. Dunque, la necessaria approfondita conoscenza da parte dei servizi sociali dell’ambiente di origine del minore e delle risorse che lo stesso può offrire al fine di strutturare un progetto volto al rientro in famiglia e al reinserimento sociale è inadeguata quando i minori provengono da ambienti non convenzionali. Di conseguenza, quando non è riconosciuta univocamente l’idoneità del domicilio familiare, i minori si trovano spesso a scontare gran parte della pena o della fase cautelare in Ipm o in comunità, determinando quella lacerazione con il resto del tessuto sociale che la giustizia vuole, in astratto, evitare.
Eppure molti minori provengono dai campi rom o abitano in stabili occupati con le loro famiglie spesso vittime di sgomberi forzati, ed è dunque assai pesante questa insufficienza di strategie rispetto a uno status tanto presente del contesto familiare da cui proviene il minore imputato o condannato.  Appare illogico far ricadere le conseguenze della scarsa lungimiranza governativa e politica sui nuclei familiari vulnerabili e sui minori. Infatti, gli stessi campi rom sono spesso autorizzati e i prefabbricati sono assegnati ai nuclei familiari direttamente dal Comune. Come potrebbe quindi non essere considerato questo un luogo idoneo per il minore dove scontare la pena o per il regime di custodia cautelare? Perché il servizio sociale non dovrebbe andare direttamente e personalmente a conoscere la famiglia, i reali bisogni e le reali prospettive di emancipazione del minore?
Anche l’occupazione abusiva e il rischio di sgombero sono frutto della incapacità politica che spesso si riscontra nel tutelare le fasce più deboli della popolazione, laddove anche i nuclei familiari con minori sono lasciati senza una abitazione. Appare quindi ancor più illogico che tale disfunzione pubblica debba ricadere nuovamente sui minori, i quali non avendo l’abitazione familiare devono scontare gran parte della pena, o della fase cautelare, in carcere.
È utile ancora riaffermare che inevitabilmente tale situazione determina un circolo vizioso in cui le famiglie non conoscono le dinamiche processuali e non capiscono l’importanza del servizio sociale e delle raccomandazioni da questi impartite; ugualmente il minore non riconosce – se non aiutato in ciò dalla propria famiglia – alcuna autorevolezza al servizio sociale
Per tutti questi motivi, gli operatori dell’associazione Naturalmente Onlus hanno efficacemente sperimentato a Roma l’attività di mediazione sociale come metodologia operativa, operando all’interno dei servizi della Giustizia minorile, nello specifico con il Centro Giustizia Minorile e con la Procura presso il Tribunale per i Minorenni, con i quali l’associazione ha siglato un protocollo d’intesa.
Nell’ambito della giustizia minorile (civile e) penale, la mediazione sociale riveste un ruolo importante, intervenendo in quei contesti che difficilmente vengono raggiunti dagli operatori istituzionali. Il mediatore sociale si pone proprio in una relazione di ascolto e incontro delle famiglie, degli ambienti di origine e dei modelli educativi e culturali del minore, di modo da proporsi come ponte tra loro e le istituzioni, in particolare il servizio sociale.  L’attività di mediazione sociale è orientata a stimolare la partecipazione attiva di diverse categorie e contesti –  a partire dai singoli e dai gruppi sociali di appartenenza, fino alle realtà locali e territoriali dei contesti di vita dei ragazzi – nella gestione delle tematiche conflittuali e delle criticità che possono insorgere tra i diversi attori del territorio. Molto spesso gli interventi vengono posti sulla comunità di appartenenza (fuori dalle strutture tipiche dei Servizi della Giustizia minorile), raggiungendo quelle realtà esterne maggiormente marginali e non conosciute dagli operatori tradizionali e istituzionali.
Un ruolo essenziale svolto dal mediatore sociale è pertanto proprio quello di far cadere la diffidenza reciproca e rafforzare la relazione minore-famiglia-servizio sociale, che è necessaria al fine di qualsivoglia progettualità e che infatti è stata posta alla base della nuova giustizia minorile.
È in tale contesto che l’associazione ha proposto lo strumento dei permessi premio per i minori i cui genitori – senza permesso di soggiorno – hanno paura a recarsi in visita all’Ipm, facendo sorgere in loro l’idea di essere stati abbandonati dalla famiglia; il costante aggiornamento delle condizioni dei minori e dei genitori dove vi sia difficoltà ad incontrarsi; la spiegazione degli istituti processuali; la decifrazione del ruolo del servizio sociale.
In definitiva, la mediazione sociale sta inserendo nel nostro sistema minorile un nuovo paradigma in cui sono le istituzioni ad avvicinarsi all’ambiente sociale, culturale ed educativo del minore imputato o condannato, di modo da inaugurare una nuova relazione che possa portare a progettualità veramente calzanti sulle peculiarità del minore e della sua famiglia e finalmente riconosciute ed accettate da tutti i soggetti ai quali le stesse si riferiscono.  Un approccio olistico che sappia interagire con il contesto sociale di riferimento del minore per garantire il suo migliore interesse nel cammino del percorso evolutivo.