Cosa mostra l’osservazione di Antigone: serve un regolamento specifico, superiamo la misura dell’’aggravamento’, non mandiamo in carcere i minorenni

Nello slang hip hop, ‘trill’ nasce dall’unione delle parole ‘true’ e ‘real’ per indicare qualcosa di genuino e autentico. ‘Trill’ sono le storie dei ragazzi che finiscono nel circuito penale e che Antigone racconta nella serie video con Kento allegata al presente rapporto, con le loro difficoltà, fragilità, possibilità. ‘Trill’ è il ruolo che la giustizia minorile dovrebbe sempre avere: quello di proteggere i sogni più autentici dei ragazzi senza mai cedere a percorsi stereotipati, promuovendo per loro ogni opportunità futura e mantenendo genuine le loro vite.

Il nostro ultimo rapporto sulla giustizia minorile prima di questo lo presentammo il 21 febbraio 2020 presso la comunità di accoglienza Borgo Amigò a Roma. Era il giorno esatto in cui la pandemia raggiunse l’Italia e il primo focolaio scoppiò nel comune lombardo di Codogno. Tanto la nostra osservazione diretta degli Istituti Penali per Minorenni quanto l’analisi dei numeri ufficiali della giustizia penale minorile, lungo questi due anni, sono state intensamente segnate dalla crisi sanitaria.

Il numero dei ragazzi in Ipm, già residuale all’interno del sistema della giustizia penale minorile italiana, è ulteriormente diminuito. Si è confermata la minore capacità del sistema di sostenere le fasce più deboli: a fronte dell’emergenza e delle disposizioni prese per contenere le entrate in carcere, il calo degli ingressi in Ipm del primo semestre 2020 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente ha riguardato meno i ragazzi stranieri dei ragazzi italiani. Gli istituti hanno concentrato le proprie energie sulle misure per far fronte ai tanti problemi che immediatamente sorgevano tutti assieme nella vita quotidiana – in ambito sanitario, naturalmente, ma anche scolastico, lavorativo, nei rapporti con le famiglie, nelle attività portate avanti dal volontariato – lasciando per alcuni aspetti indietro quel processo di innovazione che stava mettendosi in moto.

Le nuove norme entrate in vigore nell’ottobre 2018, che finalmente prevedevano regole di vita interna nelle carceri minorili differenziate rispetto a quelle degli adulti, disponevano la possibilità per i ragazzi di effettuare visite prolungate con i propri cari in ambienti e modalità idonee a riproporre un contesto di normalità e riservatezza. Ma in pochissimi casi gli istituti si sono adeguati alla nuova disposizione, spesso motivando con l’avvento della pandemia le difficoltà a organizzarsi. Così, ad Acireale si è tentato di fare in fretta a reperire lo spazio adatto ma con la pandemia non lo si è più usato, a Torino erano stati individuati spazi e orari ma tutto si è bloccato, a Roma le visite prolungate dovrebbero svolgersi ogni prima domenica del mese ma ciò non accade per via della situazione sanitaria, a Milano si è tentato di organizzarle ma il Covid le ha interrotte, a Pontremoli, Palermo, Catania è stata avviata qualche sperimentazione che poi è stata sospesa. A Bari sono stati stanziati i fondi, mentre a Cagliari non ce ne sono, a Bologna non vi sono spazi adeguati e anche in altri istituti semplicemente le visite prolungate ancora non si fanno.

Ancor più di rilievo: il decreto del 2018 prevedeva l’istituzione di sezioni a custodia attenuata, aperte al territorio e dove il ragazzo poteva vivere una detenzione più responsabilizzante e autogestita. A oggi, è un’esperienza quasi inesistente sull’intero territorio nazionale. Eppure, come scrivevamo già due anni fa, le sezioni a custodia attenuata avrebbero potuto diventare la nuova normalità di un diverso modello detentivo.

Se la distanza dal mondo esterno e dalla vita ordinaria crea nell’adulto una frattura dolorosa e difficile da ricucire nel percorso di reintegrazione sociale, ancor più questo vale per un ragazzo. Nonostante questa consapevolezza, che il sistema della giustizia penale minorile mostra di avere per molti altri aspetti, l’attività più rilevante che un giovane affronta nella propria quotidianità, ovvero la scuola, è vissuta dai ragazzi in Ipm quasi esclusivamente all’interno del carcere. Nell’istituto di Catanzaro un unico ragazzo al momento della nostra visita frequentava all’esterno l’ultimo anno dell’istituto tecnico agrario, anche in quello di Acireale vi era un ragazzo che usciva per frequentare la propria classe dell’istituto turistico del territorio, mentre nel carcere di Potenza il solo ragazzo iscritto a una scuola esterna si trovava in quel momento in didattica a distanza. Esperienze numericamente irrisorie, che andrebbero potenziate fino a divenire la modalità prevalente di istruzione per i ragazzi detenuti.

Se la pandemia ha costituito una battuta d’arresto in alcuni processi emancipatori della vita interna agli Ipm, essa ha anche recato con sé, come accaduto pure nelle carceri per adulti, alcuni aspetti di innovazione ai quali non si deve mai più rinunciare. Ci riferiamo in particolare alle possibilità di legame con il mondo esterno – i colloqui con le famiglie lontane, ma anche l’opportunità di informarsi o di seguire un corso a distanza – date dall’introduzione delle nuove tecnologie in carcere. Spiace che un percorso così banale abbia dovuto attendere la tragedia della crisi sanitaria per imporsi. Ma, anche dunque per il carico di sofferenze che ha comportato, siamo oggi tenuti non solo a non abbandonarlo ma anzi a potenziarlo al massimo.

Molti dei punti che abbiamo menzionato possono venire ricompresi in un regolamento penitenziario che sia specifico per le carceri minorili e che guardi ai bisogni peculiari dei giovani detenuti. Se nel 2018 sono state introdotte norme ordinamentali specifiche per gli Ipm, si deve adesso procedere al passo successivo: quello di specificare tali norme attraverso un loro regolamento di esecuzione. Il regolamento può essere uno strumento estremamente potente per l’impatto che può avere sulla vita interna. È proprio per questo che non si può pensare di utilizzare al proposito le stesse disposizioni pensate per i detenuti adulti, neanche là dove le norme della legge si applicano a entrambe le categorie.

Sulla necessità di introdurre un regolamento penitenziario capace di guardare alle esigenze e alle prospettive specifiche dei ragazzi ha insistito anche la Commissione ministeriale per l’innovazione penitenziaria presieduta dal prof. Marco Ruotolo nella relazione finale consegnata lo scorso dicembre, scrivendo che “la Commissione ha rilevato la necessità dell’adozione di un apposito regolamento attuativo dell’ordinamento penitenziario minorile, che dia seguito alla riforma intervenuta nel 2018” e auspicando l’istituzione di un apposito gruppo di lavoro.

La gestione dell’inserimento scolastico, la gestione del lavoro e della formazione professionale, i contatti con le famiglie, la sessualità, il sistema disciplinare, gli spazi detentivi e collettivi, la prevenzione e l’educazione sanitaria, la presa in carico psicologica, il momento dell’accoglienza e quello della dimissione: questi e altri sono ambiti nei quali le disposizioni regolamentari devono saper guardare ai bisogni specifici delle carceri minorili.

Un regolamento di esecuzione per gli Ipm è dunque quanto oggi chiediamo con l’urgenza della consapevolezza che la pandemia può e deve costituire un’occasione riformatrice. Inoltre e non secondario: uno sguardo complessivo ai numeri, certamente confortanti, della detenzione in Ipm consente di mettere a fuoco alcuni nodi attorno ai quali sarebbe possibile costruire ipotesi di ulteriore residualizzazione della detenzione. Il primo è quello del sistema dei cosiddetti ‘aggravamenti, ovvero ingressi in carcere per un periodo di tempo non superiore a un mese in caso di comportamenti inadeguati tenuti dal ragazzo in comunità. Nel corso del 2021 sono stati ben 170 gli ingressi in carcere dovuti all’aggravamento. È forse l’ora di cercare

soluzioni diverse per reagire alla violazione delle regole della comunità, soluzioni che non richiedano il passaggio in carcere, sempre traumatico per il giovane, e che al tempo stesso non gravino gli Ipm di questa utenza indiretta, che in effetti è essenzialmente utenza delle comunità stesse.

In secondo luogo sarebbe forse il caso di pensare ad un definitivo superamento del ricorso al carcere almeno per i minori di 16 anni, se non per i minorenni in generale. Non sono molti, sono in Ipm in larghissima maggioranza in misura cautelare, e si trovano a convivere con ragazzi che ormai sono per la maggior parte maggiorenni (il 18% ha addirittura più di 21 anni). È evidente che il ricorso agli Ipm in Italia sta diventando sempre più marginale, il che è confortante. Ma questo significa anche che i più giovani sono sempre meno, e la costruzione di percorsi e spazi riservati a loro in Ipm diventa sempre più difficile. Forse è tempo di fare un ulteriore passo avanti verso la residualizzazione del carcere escludendolo del tutto per i minori di una certa età, seppure imputabili, indipendentemente dal reato.